Mentre, a livello globale, viaggiamo con numeri piuttosto seri verso il quarto mese di pandemia da virus Corona, sarà il caso, in Europa e in particolare in Italia, di tracciare un primo bilancio di quanto accade. Aiuterà ad uscirne con le ossa meno rotte possibile e, soprattutto, ad affrontare preparati la fase successiva a una vicenda che mette a nudo i limiti delle nostre società, insieme ai loro punti di forza.
Il primo dato, essenziale sia per le risposte da fornire oggi al Coronavirus, sia per la costruzione del dopo, è che, nonostante tutto, le istituzioni e il loro rapporto fiduciario con i cittadini, stanno tenendo. Non dappertutto nello stesso modo, ma tengono. Esemplare il caso dell’Italia. Nonostante la contabilità davvero orribile di contagiati e morti, nonostante l’alto numero di imbecilli che continua a circolare impune per strade e festini, nonostante i miserabili disperati che profittano del dirottamento delle forze dell’ordine sul fronte contagio per rubare persino a medici e infermieri negli ospedali, il paese sta manifestando solidità e solidarietà.
I sempre litigiosi partiti politici hanno sotterrato l’ascia di guerra reciproca, il governo non ha subito una sola contestazione pubblica, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica, nei loro messaggi alla nazione sono stati ascoltati e commentati positivamente, nonostante certa retorica (soprattutto Conte) francamene fastidiosa in un momento come questo. I fenomeni in negativo come la rivolta generalizzata nelle carceri con corollario di morti, le informazioni non sempre precise delle autorità preposte, certi ritardi nei provvedimenti e gli eccessi di burocratizzazione previsti per applicarli, talune asprezze nel dialogo tra regioni e governo centrale, non cambiano il giudizio complessivo.
Simile la tendenza negli altri paesi dell’Unione Europea, con il molto chiaro e il minore scuro di cui si è detto per l’Italia.
Questo non significa che il rapporto fiduciario tra cittadini e istituzioni tenga sino alla fine della lunghissima crisi, anzi è prevedibile che accadrà il contrario e che molti ceti politici saranno chiamati dagli elettori a rendere conto degli errori di sopravvalutazione o sottovalutazione compiuti. Ma dovrebbe trattarsi di un giudizio riguardante persone e partiti politici, non le istituzioni o il sistema in quanto tale.
Abbastanza diversa appare la vicenda del rapporto tra cittadini europei e istituzioni dell’Unione. Con l’Italia, primo paese in difficoltà, e gli altri 26 a far finta di niente o peggio, veder atterrare a Fiumicino un cargo cinese pieno di ogni bene sanitario, respiratori e medici di scorta inclusi, non ha fatto fare bella figura alle istituzioni unionali. E la sgradevole sensazione si è ripetuta nel giro di pochi giorni, col secondo cargo cinese in atterraggio.
Dando per scontato che l’Unione non ha poteri federali e che quindi sia abilitata a fare solo ciò che gli stati membri le consentono, in molti si chiederanno se l’Ue abbia fatto tutto ciò che era in suo potere, sia per prevenire l’insorgere e l’espandersi del Covid-19, sia per debellarlo. Ambedue gli schieramenti, culturali e politici, che si confrontano da tre decenni bloccando la crescita dell’Ue, si sentiranno rafforzati dalla domanda. Gli uni affermeranno che l’Ue, di fronte al dilagare del male, si è confermata un ente inutile; gli altri che la mancanza di poteri in materia sanitaria e di sicurezza ha impedito all’Ue di operare come sarebbe stato necessario. Personalmente ritengo che mai come in questa situazione sia confermato il bisogno di sovranazionalità in Europa. I piccoli e medi stati nazionali del vecchio continente, non hanno capacità per corrispondere da soli alle sfide globali. I virus Corona se la ridono di grosso davanti alle frontiere e ai confini, scavalcandoli allegramente pur non essendo dotati di passaporto e insinuandosi per ogni dove in barba a bandiere e proclami dei leader delle nazioni. Guerre del genere si vincono con alleanze rese forti da un governo centrale e dall’accumulo di tutte le risorse necessarie, non in ordine sparso.
E qui si inserisce il tema della lezione che, si spera, i popoli apprendano riguardo alle scelte di nazionalismo esasperato che molti di essi hanno operato in questo decennio. La diplomazia dell’arroganza (v. le scelte di politica internazionale di Usa, Gran Bretagna, Turchia, Ungheria, Brasile, Russia, Polonia, per esemplificazioni) che ha favorito sconvolgimenti diplomatici (l’avanzata nel Mediterraneo di Russia e Cina, ad esempio) e affanno della crescita economica e sociale globale azzannata dal protezionismo, ha schierato, davanti al nemico Corona un mondo diviso, incapace, almeno sinora, di risposte concordate, solidarietà, allentamento delle spese militari e dirottamento delle risorse sugli investimenti sanitari e sociali. Sembra di poter dire che solo comunità scientifica e OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, siano sfuggite all’andazzo, collaborando nella ricerca di vaccini e fornendo quanto aiuto possibile a governi e popolazioni in difficoltà.

L’incapacità ontologica delle risposte nazionali ad una pandemia dovrebbe risultare evidente anche ai più incalliti nazionalisti: su certe questioni che riguardano la specie umana e la sua sopravvivenza come società evoluta, serve la risposta multilaterale della comunità internazionale, la messa in comune di tecnologia uomini e ricchezze scientifiche, non l’insana arroganza di chi ritiene che una recinzione possa salvare il suo orticello da insetti e infezioni. Davvero un miserando spettacolo vedere Usa e Cina beccarsi per un primato impossibile, anche in questi giorni di lutti: sarebbe stata invece un’ottima opportunità per riaprire il dialogo e collaborare nell’interesse coincidente e dei due paesi e della popolazione del mondo. In un precedente contributo a queste pagine, ricordavo la lezione di Emmanuel Le Roy Ladurie sulla “unificazione microbica del mondo”. L’unificazione non riguarda solo microbi e virus ma almeno su questa materia è auspicabile si trovi rapidamente una modalità attraverso cui la specie umana si attrezzi a corrispondere all’unisono alle sfide globali che la chiamano in causa. Oltre al lavoro dell’OMS serve la volontà politica.
Lo stimolo all’unità degli intenti, può essere definito come uno degli effetti della pedagogia da virus che stiamo sperimentando. In Italia ed Europa si vedono famiglie più unite, più affettività, dialogo, solidarietà, volontariato e donazioni di sangue, versamenti di somme anche importanti alle strutture sanitarie e della protezione civile. La gente, reclusa in casa, si affaccia ai balconi e alle finestre ad orari quotidiani fissi, per plaudire ai medici e agli infermieri, fa cori e inni alla fiducia alle prime ore della sera cantando inni nazionali, brani d’opera, canzoni popolari: in rete circolano testimonianze in tal senso da Italia Spagna e Francia. Artisti del pop melodico e rap italiano organizzano concerti in streaming dalle loro reclusioni. Retorica mediterranea, certo, ma anche antidoto all’angoscia e giusto riconoscimento a chi sta rischiando la pelle per assistere gli altri, anche quei troppi irresponsabili che continuano a non rispettare le regole di prevenzione infettando se stessi e gli altri.
Sono medici e infermieri, lavoratori di altre necessarie attività che fanno turni anche massacranti a meritare rispetto e solidarietà, visto che sono lì in prima linea, non per obbligo ma perché non se la sentono di tirarsi indietro. Nel libro “Intoccabili”, edito da Marsilio nel 2017, un medico di Medici Senza Frontiere raccontava il suo intervento in Liberia per Ebola nel 2014, spiegando come non fosse consentito a nessun operatore sanitario internazionale di restare lì per più di un mese: il nostro personale sanitario ha abbondantemente superato quel limite. Fortunatamente non deve vedersela con la micidiale Ebola e lavora in ben altre condizioni ambientali, tuttavia il dato di comparazione merita di essere citato.
Da quel libro tante lezioni, per la gestione della pandemia in corso. La più utile, l’accettazione necessaria del cambio di prospettiva nelle esistenze individuali e collettive. La repentinità del contagio, la sua subdola capacità di penetrazione, chiedono di spostare il futuro nel campo dell’imponderabile che “forse” ci riguarderà, e accentua la consapevolezza che nell’esperienza di ogni essere vivente tutto si gioca intorno a due poli: la vita e la morte. Il protagonista del libro, esaurito il periodo di formazione specifica, parte da Bruxelles su uno degli ultimi voli di linea disponibili, e sbarca a Monrovia, capitale della Liberia. In poche ore è scaraventato nel cosmo degli “intoccabili”: per salutare adotta il tocco della scarpa altrui, tanto il contagio è assassino. Nella “No Touch Mission”, i comportamenti ancestrali dell’interconnessione tra umani sono rinviati ad altri tempi e altri luoghi, dove e quando la stretta di mano, il bacio, l’abbraccio, il raccattare qualcosa che cade, non saranno più gesti letali.
Un’applicazione della pedagogia da Covid-19 l’ha fatta circolare il cinquantenne regista e scrittore spagnolo David Trueba. Con spirito visionario, ha immaginato l’apocalissi di un’Europa devastata dal virus, con torme di sopravvissuti che, terrorizzati e in preda all’isteria collettiva, spingono battelli e gommoni verso l’Africa, per ragioni climatiche apparentemente indenne dai danni polmonari inflitti dal punteruolo del Corona. Sulle coste africane troveranno ciò che loro hanno insegnato a costruire agli stati del continente nero quando scacciavano gli africani richiedenti asilo e protezione: muri, controlli violenti, frontiere inespugnabili. Le forze dell’ordine africane sparano senza pietà sugli occidentali bianchicci e malandati che vogliono infettare un continente sostanzialmente sano, urlando loro: “statevene a casa vostra, lasciateci in pace, non infettateci, tenetevi la vostra miseria e le vostre infermità”. Pronunciano frasi che per lunghissimi decenni gli europei hanno urlato in faccia agli africani che chiedevano pane e lavoro.
Qualche europeo, specie se ha denaro in tasca, ce la farà a sbarcare, come un tempo capitava ad africani in arrivo sul suolo della fortuna europea. Finirà nelle grinfie delle mafie europee e locali, complici nel rinchiuderlo in quarantene inospitali, dove lo spoglieranno di ogni bene, violeranno i suoi affetti, affosseranno la sua dignità.
Senza arrivare ai toni apocalittici di un Trueba, la prospettiva del quadro italiano per il dopo Covid-19, presenta più di un problema. Diamo per scontato che avremo un debito pubblico cresciuto in modo straordinario e che andrà fatto prima o poi rientrare, presumibilmente stringendo la cinta e mettendo la mano al portafoglio. Diamo per scontato che l’economia farà fatica a risalire e che le fette di mercato perse al tempo del contagio non è ovvio che si riconsegnino subito ai nostri esportatori. Il paese si ritroverà più povero e con più disoccupati. Inoltre, presumibilmente si accentuerà, almeno nel breve, lo squilibrio demografico, per l’ovvia ragione che in molti penseranno ad andarsene e che a molte giovani coppie per un po’ sarà passata la voglia di mettere al mondo figli. È presumibile che le opposizioni accusino il governo dell’accaduto, e che il mai sopito conflitto tra stato centrale, regioni e autonomie, trovi nuova esca nel bisogno di una riforma urgente della sanità pubblica.
In quel quadro presumibilmente problematico, peseranno sulle nostre coscienze i numeri dei contagiati e dei morti, per ora assolutamente superiori a quelli di altre nazioni. Nella sera italiana del 17 marzo, contiamo 31.500 contagiati e 2.500 morti. Rispetto alla Cina, campione della nefasta statistica, abbiamo lo 0,052% della popolazione infetta, un’enormità rispetto allo 0,0057 cinese; i nostri morti sono il 7, 94% dei contagiati, quelli della Cina il 3,97%. Registriamo pertanto una percentuale doppia di decessi sul numero dei contagiati. E in Cina sembra si siano praticamente fermati in quanto a contagi e morti; noi no e fra tre giorni, salvo un arresto del trend, avremo in numeri assoluti più morti della Cina. Vedremo, nella prossima decade se inizieremo finalmente la curva discendente.
Solo se durerà il collante che sta tenendo unito il paese in questi giorni, riusciremo a uscirne. Ma tante, davvero tante cose dovranno cambiare.