Domenica 17 novembre alle ore 7,50 ancora una volta Venezia si sveglia al suono delle sirene. È con questo suono che ormai da 5 giorni la popolazione viene avvertita dell’arrivo dell’alta marea. Come in un film o dentro i racconti dei nostri avi sulla seconda Guerra mondiale quando le sirene avvertivano la cittadinanza dell’arrivo delle incursioni aeree e della necessità di correre ai ripari nei rifugi. Qui il pericolo non arriva dal cielo, ma dal mare e, a Venezia, i rifugi sotterranei non ci sono: l’acqua qui la fa da padrone, vive anche al disotto delle abitazioni. E quando di acqua ce ne è troppa, anzi diventa “granda”, i veneziani non hanno ripari; l’acqua non si può fermare con le mani, ma i veneziani hanno solo quelle; nessun altro provvedimento è mai stato messo a disposizione per tutelare e salvare questa millenaria unica città al mondo.

Già nella serata del sabato 16, alla chiusura dei negozi, i commercianti avevano continuato a lavorare per proteggere la loro fonte di guadagno. Dopo aver sollevato tutta la loro mercanzia e pezzi di mobilio ad una altezza considerata sicura (circa un 170 cm. da terra), avevano cominciato a installare le paratie, rettangoli di acciaio che ermeticamente vengono inchiodati sulle pareti delle entrate dei negozi; unico mezzo di difesa dalla devastazione dell’acqua marina.
Per la domenica ci si prepara per la terza inondazione in una settimana e l’altezza di questa marea è prevista essere di 160 cm.
Lungo le calli i turisti sono sgomenti, increduli ma anche divertiti, consci di vivere dentro un evento storico, si affrettano a comprare stivali di gomma venduti in ogni angolo delle calli, poi si scatenano con i click fotografici coronati da sorrisi smaglianti. I veneziani invece sono sotto shock, li si sente parlare solo dell’alta marea, i pochi che riescono ad uscire di casa vanno in soccorso di coloro la cui casa al piano terra è completamente invasa dall’acqua e il loro animo devastato. C’è un solidare aiuto reciproco sia nel cercare di liberare i pavimenti dall’acqua, sia nell’offrire ospitalità ad amici e conoscenti meno fortunati. Quando si incontrano lungo le calli, lungo le fondamenta o nei campi i loro discorsi vertono inevitabilmente sui bollettini delle maree, su racconti di incredibili perdite, su come affrontare il domani, solo quello più imminente. Sono pragmatici i veneziani.

“Un mio amico ha perso tutti i ricordi della sua vita, l’acqua è entrata nella parte bassa della casa e il mare si è portato via tutte le foto di famiglia e altri ricordi”. Cosi racconta Silvano che tradisce la sua emozione abbassando lo sguardo in terra, testimoniandoci quanto la crudeltà dell’evento deve aver ferito nella profondità i molti: dover accettare che i ricordi possano si dissolvano nell’acqua saltata spezza il cuore. Silvano ci racconta queste storie mentre è sul battello, si sta accingendo a raggiungere la sua casa del Lido a piano terra e fare la conta dei danni. “Il Lido di solito non si allaga, è più in alto di Venezia, ma questa alluvione è talmente impressionante che ci aspettiamo di trovare anche in quella casa un disastro”.

Le scuole sono chiuse ormai da quattro giorni, e cosi circa 500 giovani volontari lavorano nella pulizia delle tante chiese sparse nella città, e, muniti di stivali, scope e secchi sono consapevoli di rendere un bene alla umanità: “Venezia è di tutti e per tutti e noi lavoriamo nel rispetto della ricchezza artistica che deve sopravvivere per i nostri posteri” dichiara Marco quarto liceo scientifico.
“Per i politici le opere possono e devono aspettare mentre mettono sempre al primo posto le preoccupazioni elettorali” si sfoga Ruggero, barista veneziano che prosegue “non sappiamo più a chi votare”. La rabbia è forte nei veneziani che hanno visto le loro gondole navigare senza controllo nella laguna, i battelli schiantarsi lungo i canali, i chiostri delle edicole sollevarsi alla furia dei venti della bora e dello scirocco, e all’ opera corrosiva dell’acqua salata.
“L’ultima grande alta marea devastante era stata quella del 1966, sin da allora cosa ha fatto il governo italiano? Niente” si chiede e si risponde il proprietario di un albergo sulla Strada Nova, Luigi Checchini, “hanno progettato il MOSE, con le 78 paratie aventi funzione di diga ma ancora non è entrato in funzione nonostante sia stato iniziato 15 anni fa. Non è tutto ridicolo?”.

Il MOSE finora è costato 5,3 miliardi fino a 7 con le opere accessorie, e quando la ‘torta è ricca le tentazioni finiscono con il prevalere’, cosi il progetto più avanzato del mondo, in fatto di dighe, ha finito per essere sommerso dal fango della corruzione che ne ha rallentato la messa in opera. “Non di aiuti abbiamo bisogno ma pretendiamo che venga riconosciuta alla città lo statuto speciale come richiesto dal Movimento di Separazione dalla città di Mestre” dice orgogliosamente il Checchini. Il signore Checchini fa rifermento al Referendum indetto per il 1 dicembre, per separare, appunto, Venezia dal comune di Mestre, una ultima speranza per concentrare tutte le forze politiche sulla città piuttosto che disperdere le attenzioni sui paesini della terra ferma: “Venezia ha una sua peculiarità e le va riconosciuta” dichiara il Checchini che del movimento e’ promotore.
C’è rabbia, ironia, rassegnazione al peggio, nell’ umore dei Veneziani. Fabio Trincali, del CNR, Istituto di Scienze Marine, spiega, “quello che era imprevedibile è stata la concomitanza dei due venti, scirocco e bora nel bacino, questo ha causato la ‘Aqua Granda’ come nel 1966. Ma siamo ridotti cosi anche perché il governo non investe in ricerca”.
Cosi nella basilica più famosa al mondo, l’acqua salata aiutata dalla pochezza politica, continua a corrodere i tappeti e colonne marmorei, i preziosi mosaici, i rivestimenti lignei, i ricchi mosaici, permette che i mattoni si imbevano di acqua salata mettendo a rischio la tenuta della struttura tutta.
L’ acqua alta 187 cm di martedì scorso ha causato danni per un milione di euro. Il governo ha deciso di risarcire i privati fino a 5 mila euro e i commercianti fino a 20 mila euro.

Un grido disperato viene dagli abitanti dell’isola di Pellestrina, loro sono un’isola barriera e le onde del mare hanno ricoperto l’isola con la forza di uno tsunami “qui non è come Venezia centro, qui non ci sono grandi palazzi nobili, noi siamo solo un popolo di pescatori, di quel pesce che finisce nei ristoranti della Venezia, più turistica; il problema è che ci si dimentichi di noi” si dispera Giovanni, anziano pescatore che nell’isola è nato e cresciuto.

In tutta questa tragedia non si puo’ non fare un richiamo ai tanti moniti lanciati da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia per tre legislature, che non è però riuscito a fermare il MOSE, né tanto meno a dare avvio ad altre forme di salvaguardia della laguna: “importante è la bonifica del porto Marghera, la fuoriuscita delle grandi navi dalla laguna e lavorare per un piano morfologico della laguna di Venezia, con la creazione di un parco nazionale naturale”.
Tutto con dei costi altissimi per una Italia già fortemente indebitata, “dovrebbero aiutarci come è stato fatto per Notre-Dame ma sarà difficile perché noi italiani siamo tristemente noti per la corruzione e chi mai sarebbe cosi ingenuo da versare forti contributi di solidarietà in un paese dove i finanziamenti statali vengono assorbiti dalla corruzione?”. Questo è l’amaro quesito di Francesco, gondoliere a Piazza San Marco. Quindi…..‘duri i banchi’ continuano a ripetersi i veneziani come un mantra per darsi forza e coraggio e non mollare. Un detto veneziano, questo, dai tempi della Serenissima, quando il ‘Capitan da Mar’ prima dell’arrembaggio, invitava i marinai delle galee a reggersi con forza ai banchi dove erano seduti per resistere all’urto.
Ma se ai tempi della Serenissima all’urlo di ‘duri i banchi’ si attaccava, ora lo stesso urlo serve come difesa dagli attacchi esterni. Vinceranno ancora i ‘figli della Serenissima’?