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L’esplosione nazionale avvenne con la pubblicazione nel 1961 di Il giorno della civetta. Lo spunto era stato un omicidio di mafia, uno dei tanti che sarebbe entrato soltanto nella lista dei morti ammazzati, quello del sindacalista comunista Accursio Miraglia, avvenuto a Sciacca nel 1947. Ritengo però che la vera consacrazione nazionale di Sciascia fu il film girato tra Partinico e Palermo da Damiano Damiani e con un cast che ne avrebbe tratto profitto per l’affermazione popolare e fama internazionale, da Franco Nero a Serge Reggiani alla Claudia Cardinale, protagonista stellare già dal 1963 con il Gattopardo di Luchino Visconti. Anche l’anno del film era stato uno di quelli che rimangono memorabili, il 1968 delle grandi speranze e delle recenti stroncature. In questo scenario di mutamenti e di redenzione si inserì l’exploit di Leonardo Sciascia. E allora pertanto sull’onda del film, scoprimmo il libro, ma ripescammo anche e conoscemmo Le parrocchie di Ragalpetra del 1956 e Gli zii di Sicilia del 1958.
Poi sulle ali dell’infatuazione giovanile seguì a cadenza precisa la visitazione delle altre opere di narrativa, complice la compianta Elvira Sellerio e la sua editrice della quale Sciascia era stato animatore occulto assieme a Nino Buttitta e Luciano Canfora, covo di comunisti senza partito (così Canfora, Il comunista senza partito, Palermo, Sellerio, 1984, nella gloriosa collana: «La memoria»). Tralasciando la vasta produzione di poesia, saggi, testi teatrali e sceneggiature, audiolibri e articoli ora raccolti in tre volumi da Bompiani e in due da Adelphi, mi piace ripercorrere quell’affabulazione di innamorato in un revival dei titoli di narrativa. Con l’analisi più matura e disincantata di oggi si trattò di una serie di pamphlet a tesi su temi ricavati dalla cronaca o dalle sue ricerche di archivio. Magistrale la sua scrittura, che incanta ancora oggi per la sua fluidità e semplicità. Mi domando se quel furore di fama resiste ancora o se è stato dimenticato nell’avanzata di gialli più organici dei suoi, degli horror, nella varia narrativa per commesse.
La Sicilia di Cosa nostra, uscita dalle secolari inchieste e dai trattati di politica e di sociologia, in genere disconosciuta e negata da procuratori e politici, diveniva cronaca quotidiana e costume radicato di un popolo e si materializzava in un linguaggio e in rituale che appena l’anno dopo, il 1969, diverrà folkloristica identità siciliana di coppole storte e marranzano, ma soprattutto di lupara con The Godfather di Mario Puzo e si diffuse in tutto il mondo ed ebbe consacrazione mondiale ancora con il film in tre parti di Francis Ford Coppola, divenne cult e elargì fortuna internazionale al regista ed interpreti, dal Marlon Brando con il suo siciliano di primo Novecento ad Al Pacino, James Caan e Diane Keaton. Da allora ovunque io sia andato, da Londra in estate a Shangai a Sydney a L’Avana sono stato bollato con l’attributo “mafia”. I quasi cinque milioni di Siciliani siamo diventati tutti mafiosi.
E a sostegno di questo marchio infamante, tanto epico da risolversi in immagini archetipici di eroi, imperò la sua prima definizione di “uomo d’onore”, secondo l’evangelo di don Mariano Arena:
«Io divido l’umanità in cinque categorie: ci sono gli uomini veri, i mezzi uomini, gli ominicchi, poi mi scusi i ruffiani e in ultimo, come se non ci fossero, i quacquaracquà. Sono pochissimi gli uomini, i mezzi uomini pochi, già molti di più gli ominicchi. Sono come bambini, che si credono grandi. Quanto ai ruffiani, stanno diventando un vero esercito. E infine, i quacquaracquà: il branco di oche.»
Fece inoltre scalpore e divenne verità biblica anche l’altra formula, ancora oggi diffusa, per la quale ogni tipo di criminalità è spacciata per mafia, dalla Russia al Giappone, fino al Ghana: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma».
Ne conseguì la sua particolare categoria sociale della “sicilitudine” (Sicilia e sicilitudine, da stupire la ricerca commissionata da Birra Messina alla Doxa, “La Sicilia vista dai siciliani. Viaggio nella sicilitudine”), quasi copia della “negritudine” di Léopold Senghor, che ritengo per noi razzistica e offensiva: «Categoria metafisica, condizione esistenziale, o stato antropologico dell’essere siciliani» (sic!). Metafora addirittura del mondo. Perciò da condividere pienamente l’affermazione di universalità della letteratura espressa da Andrea Camilleri, cioè l’essere soltanto «scrittore italiano nato in Sicilia», e la definizione del conio, come «il lamento che il siciliano fa di sé». Come lo erano stati da Verga e Pirandello, la folta schiera di artefici della letteratura italiana del Novecento. Eppure Michael Cimino ancora nel 1987 titolava il film sul bandito Giuliano The Sicilian.
Così scimmiottava la particolare categoria di Sciascia il suo discepolo avviato allo Strega, Gesualdo Bufalino:
«Soffre la Sicilia di un eccesso di identità, né so, se sia un bene, o se sia un male. Certo per chi c’è nato dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non saper districare tra mille curve e intrecci del sangue il filo del proprio destino».
Entrambi erano gli epigoni di una precedente e categorica definizione di razza da parte di un dilettante della narrativa, le cui affermazioni erano credo fideistico sull’onda di universale acclamazione di capolavoro del suo romanzo. Si trattava del Principe di Lampedusa e di tanto altro, cantore della trenodia dell’aristocrazia, il Tomasi che per primo bollava nel Gattopardo del 1958 i Siciliani:
«Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare […]. Non nego che alcuni siciliani trasportati fuori dall’isola, possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta».
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Nel febbraio 1960 Indro Montanelli, la malalingua toscana naturalizzata milanese, era più esplicito in una intervista rilasciata a Le Figaro Letteraire:
«Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani». E con eguale supponenza stroncò il Gattopardo: «È un esempio ammirevole di ciò che bisogna fare in Italia per riuscire in letteratura. Attaccarsi a un ‘caso’. Creare ad ogni costo un ‘caso’. Certo ‘Il Gattopardo’ è una bella fetta di vita! Ma io dico spesso agli amici: chi leggerebbe Lampedusa se Lampedusa non fosse morto? Ve lo accordo, il libro non è male».
Aprì un vespaio e uno sfuriare di reciproche ingiurie, originale il manifesto-necrologio che incitava a non leggere il suo giornale e autorevole l’invettiva del fresco Nobel Quasimodo. Eppure grandioso e profondo fu l’epitaffio di amore di Montanelli a corpo ancora caldo: «lo considero l’ultimo cui si convenga la qualifica di ‘grande’. Ma non è per questo, o non solo per questo, che l’ho tanto amato. E’ per quello che, dietro i suoi silenzi, credo di aver capito dell’uomo Sciascia. Era siciliano fino al midollo; e come tutti i siciliani veraci, combattuto fra l’amore per la sua terra com’è, e l’odio perché è com’è. Militò nei suoi giovanissimi anni sotto la bandiera comunista perché nel comunismo – credo – gli parve di vedere l’unica promessa di una tabula rasa di tutto, anche della Sicilia: l’unico modo per guarirla, chirurgicamente, delle sue secolari afflizioni. Ma si accorse presto dell’inganno, e si arruolò fra i radicali. Finché dovette convincersi che lui e i partiti, tutti i partiti, c’era assoluta incompatibilità. Da allora fu un uomo solo, senz’altro punto di riferimento che la propria coscienza: l’eretico al bando di tutte le Chiese, l’intellettuale più ‘disorganico».(Il Giornale, 21 novembre 1989). È evidente che il milanese non aveva una buona opinione di tutto quello che era siciliano: «Garibaldi aveva poche e confuse idee, era uno scadente politico ed un mediocre stratega: era più geniale che astuto. Cercava sempre un capo che legittimasse le sue azioni ed era insofferente alla disciplina. Oggi il cinema americano gli avrebbe però dedicato centinaia di film». (Michele Russotto, La Sicilia e gli anni Sessanta, Anvied, Palermo, 1989).
Tornando a Sciascia, quanto gli giovò sul piano della popolarità la sua particolare militanza nel Partito comunista? E quanto si concilia questa professione politica con la reclamata ideologia illuministica? Solo per avere scritto quella caricatura parodica di Candido? E come si spiega l’uscita dal partito nel 1977 per l’avversione al compromesso storico, per passare temporaneamente al Partito radicale? E quanto contribuirono alla fama dello scrittore le sue tirate anticonformiste e falsamente rivoluzionarie, le citate formulazioni apodittiche, nomea divenuta internazionale, sul “Siciliano”? La verità è che resta nel nostro DNA il sadomasochismo, millantiamo difetti per diversità, solo il fustigarci, l’esaltare il negativo ci dà soddisfazione e orgoglio. Certo, l’insularità e gli infiniti innesti culturali, ma questa condizione è vista dal Regno Unito come unicità ed esclusività in doti e pregi, tanto da preferire la Brexit per orgoglio.
Ripensando alla data della sua scomparsa, il 20 novembre 1989, sono preso dallo stupore e dallo sgomento per i trenta anni trascorsi fra radicali metamorfosi della società mondiale. Resta per me un dubbio insolubile: negli spasmi della nefropatia poté apprendere o qualcuno lo informò che il 9 novembre era caduto il Muro di Berlino, la “vergogna”, titolano i mass media, tacendo delle emulazioni, dai nuovi muri europei a quelli di Israele e del Messico. Quelle picconate sconvolsero il mondo, annullando tutte le ideologie e avviando l’odierno suicidio della ragione con l’affermazione dell’individualismo senza freni, delle derive populiste e del pensiero unico, fino alla “modernità” espressa dalla “società liquida” di Zygmunt Bauman: «convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza». E mi chiedo cosa avrebbe pensato e scritto lui, eretico laico di tutte le ideologie, sulla tabula rasa del suo “comunismo illuministico”, simbolo quelle pietre trafugate come ricordo. Lui, non ateo, che scrisse: «mi guidano la ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni» e volle il funerale in chiesa per «non destare troppo scandalo», attorno alla famiglia a Racalmuto (Matteo Collura su Il Corriere della Sera, 5 settembre 2007).
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Nessuno può mettere in dubbio che certe posizioni dirompenti giovarono alla sua fama e gli conferirono un’aura di uomo integerrimo e salvatore della patria. Fra tutte, quanto gli giovò la celebre ed eclatante recensione su Il Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 al libro La mafia durante il fascismo di Christopher Duggan, allievo di quel Denis Mack Smith, inglese che furoreggiò come esperto di storia italiana, attacco virulento ed ingiusto contro supposti speculatori, I professionisti dell’antimafia? Sarebbe oggi il caso di rivedere sine ira et studio il suo feroce discrimine, decantandolo dalle simpatie e antipatie personali spacciate per giudizi estetici o politici. Egli articolava il suo intervento partendo come premessa dalla “autocitazione” di passi da Il giorno della civetta e da A ciascuno il suo, ed «esibite queste credenziali», chiamava in soccorso per “il punto focale” il libro dell’inglese: «dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.». Ed ecco le dirompenti prove di simile fenomeno nelle democrazie: «per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda)». Le stesse accuse che oggi vengono rivolte a Leoluca Orlando, anche se allora Sciascia fu più buono, non citando il nome e indicandolo come un “esempio ipotetico”.
A seguire l’accusa più grave. Con il senno del poi ognuno può tirarne le somme e riflettere sul disastro che possono produrre certe affermazioni inconsulte, se diffuse da uomini che godono di indiscusso prestigio. Parlando dell’altro esempio aggiunse opinioni più sconsiderate: «Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell’assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela». L’evidenza dell’animosità contro Borsellino non richiede commenti. Ad onor di cronaca alcuni testimoni ad un incontro conviviale riservato giurano su un chiarimento tra i due (foto sotto pubblicata dal Corriere della sera).
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Sciascia avrebbe ammesso di essere stato “mal consigliato”, deviato da qualcuno che gli avrebbe fornito da Roma notizie riservate a danno del giudice. Da qualcuno si sottace il preciso riferimento, nome e cognome, ad un esempio “attuale ed effettuato”. Sarebbe troppo ardito accusare un certo metodo della magistratura “generica”, la solita magistratura “comunista”, escludendo l’intenzione di additare il soggetto del beneficio. Lo stesso varrebbe per Orlando a voler parlare di sindaci. La posizione comunque è oggi da tutti accolta: «Leonardo Sciascia in quell’articolo aveva in animo soltanto di affermare un principio di legalità e di giustizia» (Matteo Collura, Messaggero, 17 luglio 2019)-
Bisogna però dire anche che in un ultimo discorso tenuto a Casa Professa ventitré giorni prima di essere assassinato Borsellino dichiarò in proposito, come causa-effetto: «Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa… nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l’anno prima: quando Sciascia sul “Corriere” bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia» (Palermo, 26 giugno 1992), che per inciso gli bloccò la carriera (così conferma Nando della Chiesa). In proposito Giuseppe Ayala, suo stretto amico e confidente scrisse nel suo libro La guerra dei giusti (1993) che Borsellino non replicò mai a Sciascia anzi gli precisò: «La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo». Borsellino non poteva prevedere il suo destino.
Forse un tentativo di chiarire e ridimensionare con equilibrio la questione lo fa Umberto Santino con Sciascia e l’antimafia: trent’anni di polemiche in Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” (2015). Vi analizza la questione dell’antimafia “da vetrina”, dà atto alle profezie di Sciascia, anche se ammette:« Da ciò nascerà, dopo il successo del maxiprocesso in tutti i tre gradi di giudizio, lo smantellamento del pool antimafia. Ma questo non c’entra con il parere di Sciascia. Però la sua polemica, sbagliata nel tono, nella scelta degli esempi e del tempo, si prestava a quel tipo di uso strumentale. I problemi che lo scrittore poneva erano reali».