“Guidare era quasi come uscire con gli occhi chiusi”. È questa la prima cosa che Marya Pérez, insegnante venezuelana, ha pensato quando ha preso la macchina e ha guidato fino alla scuola elementare dove lavora, situata nella parte ovest di Caracas. Da allora, erano passate quasi 14 ore da quando è iniziato il più grande blackout della storia del Venezuela. Alle 4:55 di martedì 7 marzo, una interruzione del sistema elettrico nazionale ha colpito la gran parte del Paese, almeno 20 stati federali. Le autorità del governo di Nicolas Maduro hanno promesso di far ripartire il servizio entro la notte, ma quello che è cominciato come l’ennesimo blackout è finito per trasformarsi nel peggior incubo che il Venezuela abbia mai vissuto da quando la crisi dell’elettricità è iniziata.
Nell'”intoccabile” Caracas, città che il governo ha risparmiato dal razionamento, il blackout si è esteso per oltre 50 ore con brevi e intermittenti lassi di elettricità in alcune aree della capitale. Nel resto del Paese, per anni prostrato da un duro razionamento dell’erogazione dell’elettricità, il servizio è stato ripristinato più tardi, sempre in maniera irregolare. Venerdì 8 marzo, Mayra è arrivata prima alla scuola elementare dove lavora per accogliere i pochi bambini che erano presenti, convinta che la corrente elettrica sarebbe stata ripristinata. In una delle classi, è riuscita a ricaricare il suo cellulare grazie a un piccolo generatore di proprietà dell’istituto. Appena ha verificato di avere batteria a sufficienza, Mayra è tornata a casa. Le lezioni, quel giorno, sono state cancellate a causa della mancanza di elettricità.
A più di 7400 km da Caracas, in Uruguay, Omaira Mendes provava disperatamente a mettersi in contatto con sua madre. La figlia di Mayra ingrossa i numeri della diaspora venezuelana che ha cercato rifugio al di là dei confini, per sfuggire alla crisi economica e politica. Omaira è una di quei 3,4 milioni di migranti che, secondo l’UNHCR, ha lasciato il Paese negli ultimi anni. “Sono riuscita a contattare mia mamma solo 24 ore dopo l’inizio del blackout. Aveva spento il cellulare per risparmiare batteria, ma nemmeno il suo telefono fisso aveva segnale. Quando finalmente sono riuscita a parlare, ho iniziato a leggerle le notizie sul Venezuela che mi erano apparse sul feed di Twitter. Per lei, l’incertezza di non sapere che cosa succedeva era persino peggiore della mancanza di elettricità”, ha raccontato Omaira da Montevideo, in Uruguay.
Durante il blackout, Caracas si è trasformata in una città dove il tempo è parso fermarsi. Le risorse che un tempo ciclicamente aumentavano nel Paese e che il governo sovvenzionava, oggi, sembrano più limitate che mai. Sono diventate un lusso per la popolazione. Non c’era luce, e quindi neppure acqua e elettricità. Le linee telefoniche non funzionavano e tutte le transazioni delle carte di credito non andavano a buon fine. Comprare cibo e conservare i pochi avanzi era problematico. Gli alberghi e i ristoranti di Caracas che disponevano di generatori erano affollatissimi. I più privilegiati si rifugiavano per qualche ora negli hotel a 5 stelle per sfuggire al caos, pagando solo per avere corrente elettrica, acqua e Wi-Fi. Le stanze al costo di 150$ o più erano già tutte prenotate.

Nel bar dell’hotel Renaissance, situato nel quartiere ricco di Caracas, gli ospiti potevano accedere a Wi-Fi e a punti dove ricaricare il telefono solo ordinando un drink. Dozzine di giovani si sono recati lì per lavorare, usare il telefono e leggere le notizie da smartphone, tablet e pc. Persino le redazioni giornalistiche hanno dovuto improvvisare uffici negli hotel per raccontare quanto stava accadendo. Le principali strade della capitale erano piene zeppe di macchine, ma non per il traffico. Gli automobilisti hanno infatti parcheggiato in mezzo alla strada per intercettare quel poco di segnale telefonico disponibile e per poter comunicare con i familiari in altri stati o fuori dal Paese.
A causa dell’impossibilità di usare le carte di credito, e dell’assenza di bolivares (la valuta venezuelana) in contanti per via dell’iperinflazione e dell’inattività delle banche, il dollaro durante il blackout è diventato la valuta ufficiale. Nelle farmacie, nelle panetterie, nei ristoranti e supermercati la gente ha dimenticato la recente “riconversione monetaria” e ha accolto con favore le transazioni con banconote di cinque, dieci e venti dollari. Insieme al cibo, i prodotti più richiesti erano le candele, acqua potabile e ghiaccio da utilizzare negli incidenti causati dal blackout.
“Quando siamo arrivati a Caracas domenica (il terzo giorno di blackout), mia sorella temeva che il cibo che avevamo in frigo fosse andato a male. Siamo andati al supermercato ma era impossibile pagare con la carta. I commessi ci hanno addebitato tre dollari per una borsa piena di cubetti di ghiaccio per tenere congelato il cibo a casa”, ha spiegato Gherzon Casanova. Cherzon è un giovane dottore venezuelano che attualmente vive in Spagna. Si trovava nello stato federale occidentale di Mérida per far visita alla sua famiglia quando è iniziato il blackout. All’inizio, ha pensato che la mancanza di elettricità fosse dovuta al razionamento di energia a cui gli altri stati del Venezuela erano ormai abituati. Quando ha scoperto che il collasso del sistema era nazionale, ha capito che la situazione si stava facendo seria. “Fino ad allora non immaginavamo l’entità di quello che stavamo vivendo. All’inizio di marzo, a Mérida c’era stato un blackout durato 12 ore. Alcuni giorni dopo, ogni 48 ore vi era una breve interruzione di corrente. Il 12 febbraio, quando ci siamo accorti che cominciava a far giorno e ancora non c’era elettricità, abbiamo cominciato a preoccuparci”, ha raccontato Gherzon, che non tornava in Venezuela da oltre un anno.
Nel bel mezzo del blackout, anche semplicemente fare benzina è diventato un inferno nel Paese con le più ampie riserve conosciute di petrolio al mondo. “Ci sono voluti due giorni per riempire il serbatoio”, ha riferito Carlos Egana, giovane scrittore e rappresentante studentesco che vive nel sobborgo privilegiato di Caracas. “Ricordo di essere rimasto in fila alla stazione di servizio per 20 minuti ad aspettare il mio turno. I benziani non riuscivano più a rifornire perché non c’era corrente. Non lo sapevamo. C’erano dozzine di macchine ad aspettare per niente”. Carlos, da millennial, confessa che è stato ben più difficile per lui abituarsi alla mancanza del segnale telefonico che all’assenza di energia in sé. “Sembrava di vivere in Corea del Nord o a Cuba”, ha detto. “Noi venezuelani siamo abituati ad avere interruzioni di corrente molto spesso. In qualche modo, abbiamo visto questo collasso arrivare. Eppure, nei precedenti blackout, potevamo perlomeno contare sul segnale telefonico per contattare le altre persone. L’incertezza, il non sapere cosa sta accadendo è qualcosa che attererrisce emotivamente e psicologicamente. Ti colpisce a un livello molto intimo”, spiega Egana.


Tre pazienti si trovavano nelle sale operatorie dell’ospedale Jose Manuel de los Rios quando le luci si sono spente completamente. Il pediatra Vietnan Vera ha pensato fosse l’ennesimo blackout, come i molti altri che aveva vissuto nell’ospedale di Caracas. Ma aveva torto. Il principale ospedale pediatrico del Venezuela non disponeva del necessario per operare nel mezzo di un blackout. “Le centrali elettriche interne dell’ospedale non funzionavano. Eravamo nel buio più assoluto. Grazie a Dio abbiamo avuto solo 4 pazienti che erano collegati alle macchine per la ventilazione artificiale”. Facendo luce con i propri telefoni, le infermiere correvanointo su e giù per i piani della torre di ospitalizzazione chiedendo maschere di ossigeno per poter assicurare una ventilazione manuale ai piazienti con deficit respiratori. Alcuni bambini piangevano, spaventati da un buio tanto prolungato.
La National Electric Corporation (Corpoelec) ha fornito due generatori elettrici portatili all’ospedale dei bambini, ma nessuno funzionava. Soltanto il terzo, finalmente, è riuscito a somministrare energia alle aree più critiche del centro pediatrico, per tenere i pazienti collegati alle macchine respiratorie. Ma il resto dell’ospedale è rimasto senza corrente fino alla sera di sabato 10 marzo.
Dallo scorso gennaio fino al giorno del blackout, il Comitato degli utenti interessati dall’interruzione dell’alimentazione, gruppo che monitora il funzionamento del sistema elettrico nazionale, ha contato più di 3400 interruzioni in tutto il Paese, inclusi i blackout parziali e totali.
Come in precedenti occasioni il governo di Nicolás Maduro aveva attribuito la responsabilità del blackout nazionale a un sabotaggio, questa volta ha puntato il dito contro un attacco cibernetico e elettromagnetico. Maduro ha rilasciato una dichiarazione dopo 48 ore da quando il Paese ha cominciato a non avere più corrente. Eppure, è dal mandato di Hugo Chavez che gli esperti di energia mettono in guardia in merito alla mancanza di manutenzione del settore energetico.
Due giorni dopo, il 12 marzo, Maduro ha annunciato la creazione di una commissione composta da membri del suo gabinetto per indagare sul presunto attacco. La squadra, ha aggiunto, potrà contare anche sul supporto dei governi di Russia, Iran, Cuba e Cina, i principali alleati geopolitici del Venezuela. Lo stesso giorno, il ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione Jorge Rodríguez ha avvertito che il servizio elettrico era già stato ripristinato “quasi in tutto il Paese”, anche se diverse zone non avevano ancora un’erogazione regolare di corrente. Tuttavia, alcune ore più tardi, Maduro ha chiesto alla popolazione di munirsi di candele, torce, taniche d’acqua e radio a batteria per affrontare un nuovo presunto sabotaggio del sistema elettrico. Nel frattempo, la vita a Caracas e nel resto del Paese è rimasta quasi in letargo. Il problema all’elettricità è stato momentaneamente risolto, ma ai venezuelani manca ancora ciò che la luce ha tolto loro: il gas, l’acqua, il cibo, i contanti, la normalità.
Traduzione di Giulia Pozzi