Che Donald Trump non ami particolarmente viaggiare è ormai risaputo, ma questo viaggio in Argentina per il G20 se lo ricorderà come particolarmente infausto: perché intanto, in una corte federale di Manhattan, il suo ex avvocato personale Michael Cohen ammetteva di aver mentito davanti al Congresso in merito alle tempistiche di alcuni affari che l’allora candidato alle presidenziali stava portando avanti in Russia. Una ammissione che costituisce il vero e proprio punto di svolta dell’inchiesta che vede da tempo impegnato il procuratore speciale Robert Mueller.
A pochi giorni da quando Paul Manafort, già manager della campagna di Trump, è stato accusato di aver violato il patto di cooperazione con gli inquirenti – forse nella speranza di ottenere la grazia dal Presidente –, Cohen ha infatti dichiarato (presentando prove cospicue) che The Donald e la sua Organizzazione erano direttamente coinvolti in affari con finanzieri russi, dentro e fuori il Cremlino, nel periodo in cui l’attuale Presidente era candidato alla Casa Bianca. Mueller ha quindi in mano, per la prima volta, del materiale che dimostrerebbe che il miliardario newyorkese, ora Commander-in-Chief, fosse in effetti compromesso con la Russia di Vladimir Putin, proprio mentre Mosca agiva per influenzare il risultato delle elezioni presidenziali del 2016. E il fatto che tali rivelazioni giungano da Cohen, già vice presidente esecutivo della Trump Organization e braccio destro di Trump per più di un decennio, fa ovviamente tutta la differenza: l’ex avvocato del miliardario appare infatti un testimone più che credibile, soprattutto se Mueller dovesse mai chiedergli di deporre in tribunale.

Tale ammissione di colpevolezza è giunta subito dopo che Trump ha consegnato le sue risposte scritte alle domande del Procuratore, risposte che, secondo Rudy Giuliani (attuale avvocato del Presidente) combacerebbero con quanto riferito da Cohen. Ma la questione è complicata: soprattutto perché il cerchio sta per chiudersi anche intorno ad alcuni componenti della famiglia Trump. Donald Trump Jr., vice presidente esecutivo della Trump Organization, lo scorso anno ha infatti dichiarato al Comitato giudiziario del Senato di essere stato solo “parzialmente a conoscenza” dell’accordo con Mosca sulla costruzione della “Trump Tower Moscow”. Non è ancora chiaro cosa Trump Jr. abbia esattamente riferito al Comitato di Intelligence della Camera, che non ha ancora pubblicato le trascrizioni dell’interrogatorio a porte chiuse. Eppure, secondo Adam Schiff, presidente in carica della Commissione, l’ammissione di Cohen farebbe pensare che altri testimoni abbiano mentito davanti al Congresso. Soprattutto, le prove ora in mano al Procuratore sarebbero sufficienti a dimostrare che il Presidente e suo figlio hanno mentito sulle tempistiche degli affari dei Trump in terra russa.
Cohen sta cooperando con il team di Mueller dallo scorso agosto, e da settembre è già stato sottoposto a più di 70 ore di interrogatorio. L’ex braccio destro di Trump sembra inoltre essere nella posizione di corroborare una porzione chiave del cosiddetto dossier Steele, un insieme di report compilati dall’ex agente segreto britannico Christopher Steele, che il Presidente ha sempre definito come un “insieme di bugie” finanziato dai democratici, ma che in realtà ne mette a fuoco i presunti legami con la Russia. Secondo le fonti di Steele, infatti, l’allora candidato avrebbe anche avanzato offerte di “varie lucrose operazioni di sviluppo immobiliare in Russia”. E il fatto che Trump avesse ancora un profilo di investimento piuttosto modesto in quel territorio non significa che non avesse già fatto diversi tentativi per rimediare alla lacuna. Anzi: secondo il dossier, aveva già effettuato esplorazioni del settore immobiliare a Mosca e San Pietroburgo.

Non solo: la confessione di Cohen potrebbe arrivare a chiarire la scelta della Deutsche Bank come banca di fiducia della famiglia Trump: l’unica, tra l’altro, disposta a concedergli prestiti dopo le rovinose bancarotte che hanno caratterizzato la sua carriera. La banca è stata multata nel 2017 per aver fatto parte di un piano di riciclaggio di denaro russo che ha coinvolto le sue filiali a Mosca, New York e Londra, e nel suo quartier generale hanno fatto irruzione, giovedì mattina, investigatori fiscali e di polizia nell’ambito di un’indagine in corso sul riciclaggio di denaro. La banca ha rifiutato l’anno scorso di consegnare i documenti richiesti da cinque legislatori democratici relativi al suo rapporto con Trump, citando la riservatezza delle informazioni sui clienti privati.
Investito da questa tempesta, il Commander-in-Chief si è difeso dicendo che, mentre era candidato, era libero di perseguire i suoi affari in Russia: “Era molto probabile che non vincessi, nel qual caso sarei tornato a fare business”, ha detto il Presidente, che ha aggiunto: “Perché avrei dovuto perdere tutte queste opportunità?”. Il punto, tuttavia, è che l’ammissione di Cohen ha dimostrato come la stessa dichiarazione presidenziale indirizzata alla Commissione Intelligence di Camera e Senato fosse, di fatto, piena di bugie, e come il team di Trump abbia cercato di nascondere le attività dell’organizzazione in Russia tra il gennaio e il giugno 2016.
Il cosiddetto Trump Tower Moscow deal è diventato di dominio pubblico ad agosto 2017, quando il New York Times ha ottenuto le e-mail intercorse tra Cohen e il business russo-americano Felix Sater, che corrisponde all’”individuo 2” nei documenti appena depositati. Sater fu consulente dell’organizzazione di Trump a partire dai primi anni 2000, ed esaminò le offerte in Russia tra il 2005 e il 2006. Cosa ben più significativa, a novembre 2015 assicurò a Cohen di poter tirare a bordo tutto il team di Putin. “Il nostro ragazzo può diventare presidente degli Stati Uniti e noi possiamo orchestrarlo”, aveva scritto Sater. “Riuscirò ad avere Putin in questo affare e faremo sì che Donald venga eletto”.

Fu proprio Sater, quindi, ad inoltrare una lettera di intenti a Cohen, delineando i termini di un accordo per l’acquisto di immobili che avrebbe portato a costruire una “Trump World Tower Moscow”: lettera che reca la firma di Trump. Cohen era anche in contatto con un assistente del braccio destro di Putin, Dmitrij Peskov, e da quest’ultimo sarebbe stato invitato a partecipare al Forum di San Pietroburgo nel giugno 2016. All’ultimo minuto, Cohen si è poi tirato indietro, pochi giorni dopo che i membri più anziani della campagna di Trump si sono incontrati con un avvocato russo alla Trump Tower dietro promessa di ottenere materiale sporco su Hillary Clinton. Anche Peskov, in effetti, sarebbe stato colto in fallo: perché mentre giovedì ha ammesso che il suo ufficio ha chiamato Cohen nel 2016 per discutere del progetto Trump Tower di Mosca, lo scorso anno aveva invece assicurato che il Cremlino non aveva mai dato corda al “corteggiamento” di Cohen perché “non rispondiamo a questi argomenti di business”.
È proprio il caso di chiederselo: per Trump tutti i nodi stanno venendo al pettine? Di certo, difficilmente potrebbe salvarlo a questo punto l’arma del perdono presidenziale (a cui sembra aver mirato, fino ad ora, Manafort), in quanto, come alcuni esperti hanno puntualizzato, un Presidente non può concedere la grazia come strumento di ostruzionismo alla giustizia. E se Mueller, come pare in queste ore, riuscirà davvero a mettere alle spalle al muro il figlio del Presidente per aver mentito davanti al Congresso, al Commander-in-Chief resterà solo una carta da giocarsi: le dimissioni, prima che sia troppo tardi.