Con l’approssimarsi della scadenza per i lavori della COP24 che si terrà in Polonia, a Katowice, continuano a ripetersi gli allarmi lanciati da scienziati e ricercatori di tutto il pianeta sulla pericolosità dei livelli di emissioni e le conseguenze sull’ambiente. Primo a lanciare l’allarme è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che poche settimane fa ha dichiarato: “Il cambiamento climatico si sta muovendo più velocemente di noi”.
Pochi giorni fa, ad Incheon, in Corea del Sud, è stata la volta del report Global Warming of 1.5°C, pubblicato da IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change. I ricercatori hanno confermato che la temperatura media globale potrebbe crescere molto più velocemente di quanto previsto durante i lavori della COP 21 di Parigi (e delle misure relative, peraltro mai del tutto attuate): 1,5 gradi già nel 2030, rispetto ai livelli pre-industriali.
Lo Special report 15 (Sr15), (questo il nome tecnico), è stato redatto da novantuno autori provenienti da 40 paesi, che hanno analizzato ben 6mila studi: i ricercatori hanno ribadito quello che molti [e noi tra loro – vedi qui, n.d.r.] ripetono da anni, ovvero che la situazione è più grave di quella presentata a Parigi e che le misure proposte sarebbero insufficienti per fronteggiare i cambiamenti climatici e gli sconvolgimenti che seguiranno.
Ma i ricercatori dell’IPCC sono andati oltre: hanno sottolineato, infatti, che introdurre misure più restrittive e limitare il riscaldamento globale a 1,5°C (invece che a 2°C, come previsto a Parigi) potrebbe avere ripercussioni positive non solo sotto il profilo della sostenibilità, ma anche dal punto di vista sociale e geopolitico. Quello presentato nei giorni scorsi non è solo una ricerca scientifica (sebbene alcuni paesi, USA in primis, si ostinino a negare il rapporto di causa ed effetto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di sostanze inquinanti come la CO2): sarà la base su cui dovranno discutere i leader mondiali che Conferenza sui Cambiamenti Climatici, la COP24 che si terrà in Polonia a dicembre. Lo stesso rapporto dell’IPCC è stato redatto proprio in risposta ad un invito avanzato dalla Convenzione Quadro per i Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). I risultati dovevano sottolineare le conseguenze per il pianeta a seconda dei cambiamenti climatici. Ovvero l’impatto che avrebbe un riscaldamento globale di 1,5°C invece che 2°C o più. La risposta dei ricercatori non lascia dubbi: gli effetti di “aumenti delle temperature medie nella maggior parte delle terre emerse e degli oceani, degli estremi di caldo nella maggior parte delle regioni disabitate, delle forti precipitazioni in diverse regioni, della probabilità di siccità e carenza di precipitazioni in alcune regioni”.
Ma non basta, il Mar Glaciale Artico (i cui cambiamenti sono fondamentali non solo per la sua funzione di regolatore delle temperature globali, ma anche per l’impatto su tutti i mari dal punto di vista della salinità e per molti altri motivi) potrebbe rimanere senza ghiaccio marino in estate. Con un riscaldamento globale di 1,5°C, le barriere coralline (microambiente importantissimo) diminuirebbero del 70-90%; ma con un aumento di 2°C scomparirebbero del tutto (>99%).
“I rischi legati al clima per i sistemi umani e naturali sono più alti con un riscaldamento globale a +1,5° dai livelli pre-industriali rispetto al presente, ma più bassi rispetto a un riscaldamento a +2°”, ha concluso l’IPCC. “Sulla terra gli impatti sulla biodiversità e gli ecosistemi, comprese perdite di specie ed estinzioni, si prevede che saranno più bassi a 1,5° di riscaldamento che a 2°”. La conseguenza è quella che da anni viene ripetono in molti: “I rischi legati al clima per salute, mezzi di sostentamento, sicurezza del cibo, fornite d’acqua, sicurezza umana e crescita economica si prevede che aumenteranno con un riscaldamento a +1,5° e saliranno ulteriormente a +2°”.
Risultati impressionanti ma che non sorprendono chi si occupa di ambiente da anni dato che non fanno che confermare gli allarmi lanciati da centinaia di studi. Come quello realizzato da ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston e della Harvard University Center for the Environment di Cambridge (Massachusetts), e pubblicato poche settimane fa sulla rivista Nature Climate Change. I ricercatori hanno dimostrato che esiste un legame tra le emissioni di CO2 e le percentuali di elementi nutritivi in alcuni alimenti. Secondo lo studio, elevate concentrazioni di CO2 causerebbero un calo dei livelli di ferro, proteine e zinco in ben 225 alimenti. Lo studio ha valutato le conseguenze che queste modifiche nelle colture potrebbero avere sulle popolazioni di ben 151 paesi. Il risultato è che, poiché nei prossimi 30-80 anni le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera (vista anche la mancanza di iniziative concerete e la “compensazione” da parte di molti paesi) aumenteranno dagli attuali 400 ppm ai 550 ppm (e pensare che, fino a pochi mesi fa, 400ppm era considerato il limite invalicabile oltre il quale non si sarebbe dovuti andare!), il contenuto di proteine, ferro e zinco di molte colture principali, come grano e riso, diminuirà di una percentuale variabile tra il 3 e il 17 per cento. Un aspetto questo, che, unito all’aumento della popolazione globale e alla percentuale di sprechi di cibo oggi diffusa in tutto il pianeta, non può non destare serie preoccupazioni.
Si tratta di risultati e allarmi che i leader mondiali sembrano non voler sentire. Solo pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha approvato una mozione per ridurre le emissioni di CO2 dal settore automobilistico, ma in una percentuale più blanda di quanto aveva richiesto la stessa Commissione ambiente del Parlamento. Misure, peraltro di scarsa efficacia dato che non tengono conto dell’impatto di altre fonti di emissioni (come quelle della gigantesche navi porta-container).
Ma niente deve più sorprendere. Neanche il fatto che proprio in Polonia, dove si svolgeranno i lavori della prossima COP24, è stato comunicata la decisione di aprire una nuova centrale a carbone, una delle fonti energetiche a maggior impatto sull’ambiente non solo per le emissioni ma anche per l’estrazione. Sedere a pochi chilometri da questa centrale e parlare di riduzione delle emissioni è, a dir poco, ridicolo.
Tornando al rapporto dell’IPCC, un aspetto, rilevante dal punto di vista geopolitico, non è stato considerato dai ricercatori: ad essere responsabili dei danni sull’ambiente sono principalmente (per non dire quasi esclusivamente) i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo (come India e Cina, protagonisti di una corsa sfrenata verso l’industrializzazione selvaggia).
Gli altri, ovvero, i paesi poco i sviluppati, quelli più poveri, sono vittime. A loro non resterà che stare a guardare il termometro salire fino a sfondare la barriera dei 1,5° in più già tra il 2030 e il 2052 e non come avevano pensato (e promesso) i leader mondiali, impegnati in foto di gruppo e cene di gala, a Parigi nel 2100.