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Shin Dong-Hyuk, al di là del filo spinato: “La mia fuga dai campi di prigionia di Kim”

Intervista esclusiva al dissidente nato e cresciuto in un campo di lavoro in Corea del Nord, oggi attivista e supertestimone che fa tremare il regime di Pyongyang

Federica SabiubyFederica Sabiu
Shin Dong-Hyuk, al di là del filo spinato: “La mia fuga dai campi di prigionia di Kim”
Time: 8 mins read

Supertestimone delle atrocità commesse in Corea del Nord , ha convinto l’ONU ad istituire una commissione d’inchiesta per condannare il regime dittatoriale di stampo stalinista instaurato settant’anni fa dalla dinastia Kim.

“Sono nato e cresciuto in un campo di prigionia della Corea del Nord, non ho mai saputo prima della mia fuga, che ormai risale a dodici anni fa, cosa ci fosse al di là del filo spinato che mi separava dal resto del mondo. E in fondo se non avessi conosciuto Park, un prigioniero politico che al contrario di me aveva girato il mondo e mi aveva incuriosito con i suoi racconti di succulenti piatti, be’… non so se avrei mai trovato il coraggio di spingermi così oltre, di progettare con il suo aiuto una fuga nei minimi particolari e di varcare successivamente il confine con la Cina. Il cibo, la mia ossessione, mi ha regalato la libertà”.

Così inizia la mia intervista in esclusiva per La Voce di New York ad uno dei personaggi simbolo per la lotta dei diritti umani in Corea del Nord, il suo nome è Shin Dong-Hyuk.

Shin Dong Hyuk, attivista e dissidente nordcoreano

Per quasi due ore consecutive inizia a parlare e non si ferma più, mi racconta della sua vita, di quella vecchia e di quella nuova, ogni tanto fa dei sospiri e si ferma a pensare… gli sembra ancora un sogno essere riuscito a scappare. Mi descrive una vita fatta di soprusi, torture e divieti di ogni genere. Anche raccogliere una mela marcia da terra senza il permesso della guardia poteva essere motivo di pesanti punizioni, perché anche per sopravvivere, lì dentro bisognava chiedere il permesso. Essere sopravvissuto all’orrore di quei campi dimenticati dal mondo e forse anche da Dio l’ha reso una persona forte, coraggiosa e determinata a portare avanti il suo impegno.

In questi anni si è prodigato per far conoscere al mondo la disastrosa situazione della Corea del Nord, ha parlato all’ONU davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite facendosi portavoce dei diritti dei più deboli. Ha partecipato ad innumerevoli conferenze in diversi paesi del mondo, è stato intervistato da Morgan Freeman e prima ancora  lo scrittore e giornalista statunitense Blaine Harden l’ha voluto coinvolgere nella stesura della sua autobiografia Fuga dal campo 14, in cui Shin racconta nei minimi dettagli tutto ciò che ricorda da quando è nato.

Copertina del libro “Fuga dal Campo 14”, di Blane Harden, che racconta la storia di Shin Dong Hyuk

Ventitré anni di sofferenze, di fame e ingiustizie, è arrivato a sopportare l’insopportabile, quello che un comune mortale non potrebbe minimamente immaginare, il suo corpo porta ancora le cicatrici di quegli interminabili anni. Il suo racconto è da brivido e va oltre ogni più ardua immaginazione, ma ha vinto, ha vinto nonostante tutto, nonostante in quei maledetti campi abbia visto morire la mamma ed il fratello maggiore, ha vinto perché non si è arreso e perché oggi continua ad essere la voce di chi una voce non ce l’ha.

Come ti immaginavi il mondo al di là del filo spinato?

“In realtà non me lo immaginavo affatto, non ne avevo mai sentito parlare, la mia vita era fatta di una piccola routine quotidiana costellata di fame, lavori forzati e torture che non lasciavano ampio spazio all’immaginazione e, non potendo fare un paragone non riuscivo neanche a desiderare la libertà, una parola di cui ho conosciuto il significato solo dopo averla toccata con mano.

L’istruzione che ho ricevuto nei campi era finalizzata esclusivamente ad insidiare dubbi e quello che ci insegnavano a fare meglio di qualunque altra cosa era fare la spia ogni qual volta vedessimo qualcuno parlare sottovoce o rubare magari un chicco di riso,non potevi avere amici e forse neanche li desideravo perché dubitavo di tutti e tutti dubitavano di me. Ormai sono 12 anni che sono scappato dalla Corra del Nord, o meglio diciamo che sono passati dodici anni da quando l’ho abbandonata fisicamente, ma psicologicamente in alcuni momenti sono ancora là”.

Ho voluto io fortemente questa intervista avendo letto qualche tempo fa la sua autobiografia, ma mentre lo ascolto avrei quasi voglia di tirarmi indietro, le mie orecchie non sono pronte a sentire atrocità irracontabili. Shin va avanti, saltando volutamente alcuni passaggi e spiegandomi che per lui alcune ferite non si rimargineranno mai come la morte della mamma e del fratello accusati di voler evadere dal campo. La sua famiglia era stata internata nel campo prima ancora della sua nascita, per crimini commessi da loro antenati, i genitori si sono conosciuti lì e dalla loro unione sono nati Shin ed il fratello.

In Corea del Nord dagli anni Settanta vige una legge introdotta dalla dinastia Kim che permette di imprigionare non solo l’esecutore del reato senza un regolare processo, ma anche i suoi familiari per tre generazioni consecutive, questa la sua unica colpa.

La sua fuga è durata più o meno due anni, di cui un anno e mezzo trascorso in Cina arrangiandosi trovando qualche lavoretto saltuario presso fattorie locali. Successivamente, grazie all’aiuto di un giornalista conosciuto per caso mentre cercava un’occupazione presso un ristorante coreano, è riuscito a varcare la soglia dell’ambasciata sudcoreana in Cina e da lì, finalmente, la libertà.

Quali sono le difficoltà che deve affrontare un nordcoreano una volta uscito dal suo paese di origine?

“Le difficoltà sono tante, quando vivi lì sei praticamente fuori dal mondo e quando sei fuori sei come un pesce fuor d’acqua e non sempre trovi persone disposte ad aiutarti. Ti senti indietro anni luce e spesso ti senti escluso da una società che non ti appartiene. Uno dei drammi maggiori è abbandonare la tua famiglia perché sai che non li rivedrai mai più ed è logorante non sapere le punizioni che subiscono, se sono vivi o no. A dire il vero la Corea del Nord non è un posto dove comunque puoi prenderti cura dei tuoi cari, ci sono delle restrizioni anche su questo. Ma nonostante tutto molte persone che vivono lì rischiano la vita, pur di non vedere morire di fame la famiglia, attraversando il confine con la Cina per cercare di recuperare qualche spicciolo e beni di prima necessità”.

Descrivimi una giornata tipo nel campo, erano tutte uguali o i prigionieri ne aspettavano una in particolare?

“Nel campo era tutto molto ripetitivo e monotono, non c’era niente di particolare a parte la sofferenza quotidiana e la ricerca continua di cibo. Ci si alzava la mattina molto presto, si eseguivano i soliti lavori che le guardie a capo di un reparto ti assegnavano, anche il cibo era ripetitivo, zuppa di cavolo e nient’altro.

L’unico diversivo era assistere alle esecuzioni a cui praticamente eravamo abituati sin da bambini, faceva parte dell’educazione, lo usavano come deterrente per incutere terrore e per affermare il loro potere. Le guardie erano capaci di qualunque cosa, non provavano pietà per nessuno, neanche davanti ad un essere indifeso come un bambino o un anziano. Ho visto di tutto lì dentro e non smetterò mai di parlare per far conoscere al mondo intero di cosa è capace Kim Jong-Un, un uomo che passerà alla storia per le sue atrocità, per aver affamato un popolo e per la sua inumanità.

Sono passati molti anni dalla tua fuga dalla Corea del Nord, come è cambiata la tua vita?

“Credo che mi sia stata data una seconda chance, i più grandi cambiamenti, oltre la libertà di poter scegliere, sono mia moglie e mio figlio, insomma la famiglia che non ho potuto avere all’interno del campo. Ora posso pensare al futuro. Una cosa che mi preme dire è che io non ho dimenticato la mia famiglia d’origine, ho capito che se i miei genitori non mi hanno potuto dare una vita migliore questo non è dipeso da loro ma dalla situazione in cui si sono trovati, non c’è niente che non gli perdoni e vorrei che le cose fossero andate diversamente ma purtroppo non si può tornare indietro”.

In una tua intervista di qualche tempo fa hai ritrattato alcune parti del libro, Fuga dal campo 14. Il governo di Pyongyang ti accusa di esserti inventato tutto, compresi i campi. Immagino sia stato minacciato, che filone segui oggi? I campi esistono come hai sempre sostenuto?

“Io sono nato e cresciuto in quei campi, tutto quello che ho detto è vero, se non peggiore di come l’ho raccontato. Una cosa che posso dire con certezza è che gli eventi che ho descritto nel libro non vengono da nessun’altra fonte al di fuori di me, ma sono frutto di esperienze personali. Sono stato lì per 24 anni della mia vita e se ci siano stati oggi dei cambiamenti nel campo 14 non posso saperlo, ma una cosa che vorrei fosse chiara come la luce del sole è che io non ho mai vissuto fuori da quel campo e non ho mai fatto parte della società nordcoreana. Non importa il numero del campo in cui ero recluso, se 14 o 18, il punto è che io ero un prigioniero di quei campi, conosco a memoria quella piccola porzione di territorio.

Teniamo anche a mente una cosa, il libro è lungo solo 290 pagine ed è praticamente impossibile mettere 24 anni della propria vita in un certo numero di righe e raccontare tutti i fatti. Ovviamente ci sono state cose che ho raccontato con molta difficoltà perché erano e sono tutt’ora difficili, altre che non volevo condividere e di conseguenza le ho volutamente escluse. Ci sono ricordi che mi spezzano il cuore, ma ritornando indietro lo rifarei esattamente così, sono contento del modo in cui è scritto e non penso di aver tralasciato cose davvero importanti o detto cose non vere”.

L’ex segretario di Stato degli Stati Uniti, John Kerry, ascolta un intervento sui diritti umani di Shin Dong- Hyuk

Il regime di Pyongyang non si è fermato alle minacce ma ti ha addirittura fatto recapitare un video dove si vede tuo padre che ti implora di ritornare indietro e ti chiede di ritrattare tutto. Se potessi fargli arrivare un messaggio cosa vorresti dirgli?

“Questo è uno di quei ricordi che ancora mi tormentano, a dire il vero ho cercato più volte di contattare mio padre, probabilmente ancora prigioniero nei campi. Un paio di anni fa mi sono recato in alcune ambasciate nordcoreane in Europa, chiedendo di consegnare a mio padre una lettera… ma tutto quello che ho ottenuto sono state porte in faccia. A mio padre vorrei dire che lo amo infinitamente tanto e mi dispiace di non essere stato in grado di dimostrarglielo finché ero lì, non passa giorno in cui io non lo pensi.

Il regime dice che sono un bugiardo, spero che la gente non mi giudichi per la propaganda che la Corea del Nord fa contro di me, ma piuttosto per le mie azioni perché mi sono sempre messo in posizioni vulnerabili pur di dare voce al mio popolo e soprattutto per far conoscere al mondo la verità e dimostrare l’esistenza dei campi di lavoro, visibili ormai anche su Google, le cui immagini riprendono non solo i campi, proiettano al mondo una Corea buia ed isolata dal resto del mondo.

Ormai la Corea del Nord è un caso internazionale, alla luce degli ultimi episodi cosa immagini e speri nel futuro del tuo paese?

“Non ho una risposta in questo momento su quale potrebbe essere il futuro del mio paese. La Corea del Sud ed il resto del mondo sono focalizzati sulla figura di Kim Jong-Un e sfortunatamente il caso dei diritti umani non è in primo piano in questo momento. In Corea del Sud pur essendoci tantissimi rifugiati che vorrebbero dire la loro, il governo sudcoreano trova il modo di fermarli emarginandoli per non creare ulteriori problemi con la Corea del Nord. Molti di noi considerano il dittatore come il diavolo, ma il presidente sudcoreano, Moon Jae In, recentemente gli ha stretto la mano in maniera amichevole perché l’obiettivo della Corea del Sud è ovviamente mantenere relazioni  pacifiche e, per non scatenare le ire del dittatore non fa neanche cenno alla situazione degli oltre 200mila prigionieri reclusi come cani in quelle aree.

A Singapore il 12 giugno si è tenuto lo storico incontro fra il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump,e il maresciallo Kim Jong Un,sembra che Trump sia arrivato dove mai nessuno prima era arrivato,cosa ne pensi?

“Avrei voluto che si parlasse non solo del nucleare ma anche dell’abolizione dei campi di concentramento. Shin sostiene da sempre che il tema dei diritti umani dovrebbe essere la priorità sui tavoli dei negoziati mentre solitamente i discorsi a questi incontri sono incentrati solo su missili e nucleari ed il problema dei campi di lavoro viene sempre rinviato come a non voler vedere il vero male.

Lo storico incontro del 12 giugno scorso fra il presidente nordcoreano Kim Jong-un e il presidente statunitense Donald Trump

Ho fiducia in Trump e spero riesca a concludere qualcosa in un futuro non troppo lontano. Vorrei vedere le due Coree finalmente unite e vorrei rientrare nel mio paese da uomo libero, di una cosa sono certo: il regime prima o poi crollerà.

In questo paese non c’è alcun problema legato ai diritti umani. Tutti conducono una vita dignitosa e felice. [Agenzia stampa di Stato della Corea del Nord, marzo 2006]”

Ringrazio infinitamente tanto Shin per la pazienza ed il tempo che mi ha voluto dedicare, ringrazio Leeann la sua bellissima e dolcissima moglie che mi ha messo in contatto con lui e che ha contribuito alla riuscita di questa intervista, e ringrazio anche lo scrittore Blaine Harden per avermi inviato del materiale utile per il mio lavoro.

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Federica Sabiu

Federica Sabiu

Sarda, laureata in Legge, diplomata in Naturopatia presso il College of Naturophatic Medicine (CNM). Ho collaborato e collaboro tuttora con diverse testate giornalistiche pubblicando articoli che trattano di salute, benessere, nutrizione e sport, le interviste rimangono la mia passione. Attualmente oltre che per La Voce di New York scrivo anche per Vanity Fair. Appassionata di fotografia, dedico il mio tempo libero alle escursioni, al mare, ai viaggi in giro per il mondo, alla lettura di un buon libro ed ovviamente alla scrittura. Dicono di me... geniale, intuitiva, creativa, solare.

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