Una delle analisi forse più interessanti sugli ultimi sviluppi dell’inchiesta sul Russiagate è quella proposta da Adam Davidson sul New Yorker. Perché, dopo l’intervista all’ABC in cui Michael Cohen, ex avvocato di Trump oggi indagato dall’FBI, ha affermato di essere leale soprattutto alla sua famiglia, prima che al Presidente, sui media americani si è immediatamente accreditata l’ipotesi che Cohen possa decidere di collaborare con il Procuratore speciale Robert Mueller. Ed è proprio il New Yorker a spiegare brillantemente le conseguenze di una simile decisione, citando una celebre formula della teoria dei giochi sviluppata nel 1950 dai matematici Melvin Dresher and Merrill Flood, nota come il “dilemma del prigioniero”.
Il funzionamento di tale “dilemma” è piuttosto elementare: due persone, i cui interessi dipendono l’una dall’altra, vengono accusate e interrogate separatamente. Se entrambe continuano a coprirsi e restano in silenzio, la pena massima da scontare sarà per loro 1 anno di prigione. Se uno dei due accusa l’altro, potrà essere liberato, mentre il complice che si prende la colpa resterà in carcere tre anni. Alla base, vi è la teoria secondo cui l’unico modo per minimizzare il rischio di una condanna prolungata è che i due soggetti continuino a restare in silenzio e a fidarsi l’uno dell’altro. Nel caso in cui, invece, la fiducia venga a mancare e non abbiano la possibilità di coordinarsi segretamente, è altamente probabile che uno dei due accoltellerà l’altro alle spalle, nel tentativo di proteggere se stesso, in una modalità che finirà per danneggiare entrambi.
Il riferimento al dilemma del prigioniero sembra essere particolarmente azzeccato per spiegare cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere di qui a breve, nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate. Soprattutto perché appare piuttosto verosimile che Cohen, in quanto suo ex avvocato ed ex mediatore in diverse circostanze, custodisca diverse informazioni riservate, potenzialmente compromettenti, sul Commander-in-Chief. Cohen è stato colui che ha pagato la pornostar Stormy Daniels, avrebbe agito come importante intermediario tra Trump e alcuni oligarchi russi, e potrebbe essere a conoscenza anche di alcune attività di business poco chiare condotte dal miliardario newyorkese.
D’altra parte, perché il dilemma del prigioniero sia applicabile al quadro in questione, gli interessi in gioco devono essere reciproci. E in effetti, anche Cohen ha molto da perdere, visto che Trump, con la prerogativa della grazia presidenziale, ha il potere di ricompensarlo o di punirlo, a seconda di come si comporterà nei suoi confronti.
Il punto, ad ogni modo, è che l’intervista all’ABC rilasciata da Cohen sembra aver drammaticamente spostato il baricentro del gioco a sfavore del Presidente. Perché, alla domanda se fosse leale a Trump, il suo ex avvocato ha risposto inequivocabilmente: “Per essere chiaro, mia moglie, mia figlia, mio figlio e il mio Paese vengono prima”, ha dichiarato. Altro indizio del suo “cambio di rotta”, il fatto che abbia dissentito sull’espressione “caccia alle streghe” frequentemente usata da Trump per definire il Russiagate, e sull’abitudine del Presidente a screditare l’FBI per aver indagato il suo avvocato.
Ora, resta da vedere che cosa, in effetti, Cohen sappia e che cosa, di quello che dichiarerà, potrà essere provato. Di certo, se la sua intenzione resterà, come oggi pare, quella di collaborare con l’FBI, la partita potrebbe farsi, di qui a breve, infinitamente più difficile per il Presidente.