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June 29, 2018
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Città di Castello, dove l’Italia non è ancora uno stato salvinista

In Umbria due poliziotti immobilizzano un aggressore. Verrà punito, speriamo con giustizia. O forse il ministro Salvini sta preparando i lager?

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 4 mins read

Ci sono fatti che, per il tempo, il luogo e il modo in cui si manifestano, assumono non solo un immediato valore simbolico: di sentimenti correnti, di atmosfere collettive, ma paiono anche porsi come un piano solido, su cui  progettare, costruire.

Consideriamo quello che è accaduto a Città di Castello, giovedì.  Un uomo, nei pressi del varco di ingresso ad un Palazzo antico, di fronte una piazza nobile e ordinata. Il Palazzo è oggi sede del Commissariato di Polizia: due agenti lo piantonano.

L’uomo prende ad aggredire gli agenti, verbalmente e a mani nude: spinte, manate; presto viene immobilizzato a terra, senza nessuna costrizione superflua da parte della Polizia, ma l’uomo resiste, un pò si dimena, viene lasciato rialzarsi: parlano; poi riprende ad agitarsi, si denuda, del tutto. Per un paio di minuti prosegue in questa condizione ad inveire; nella presa con uno degli agenti, entrambi finiscono per terra; quindi, di nuovo in piedi, senza scossoni; tutto rimane sotto controllo; l’uomo si riveste, e gli agenti, dopo un pò, ne vengono a capo; arrivano due volanti, per eseguire il fermo dell’uomo, e di una donna, che, in sua compagnia, era stata ad assistere, senza intervento attivo. Sono stati sottoposti agli arresti domiciliari, e la loro condotta sarà oggetto di un giusto processo col rito direttissimo; all’esito del quale, intervenuta l’Accusa e la Difesa, un Tribunale deciderà secondo Legge.

La scena, in sè, descrive una condotta da manuale, da parte della Polizia: ad esemplare come si può dar corpo, in un Paese civile, all’osservanza reale dei diritti di libertà personali: quando ne sia legittimamente necessaria un pur minima compressione. Per avere un’idea dell’alternativa (qualificando un comportamento di comune resistenza a pubblico ufficiale, come di “Attentato allo Stato”), nei paesi sovietici, a seconda dei periodi, o l’avrebbero freddato seduta stante, giusto il tempo di scendere un paio di rampe verso un qualche scantinato; o, dopo un trattamento ortopedico a dovere, avrebbe preso minimo vent’anni di lavori forzati, a cinquanta sotto zero, salva sempre la morte detentiva. Analoghe “procedure”, sebbene su scala minore, ma di identica qualità, venivano osservate dalle varie dittature militari sudamericane del felice e ridente Ventesimo Secolo. Per non spostarci fino a Mao, e a Pol Pot. 

Perché, però, un simile paragone? Se ho appena scritto che si è trattato di un’azione istituzionale da mostrare nelle scuole?

Perché non ci sono stati solo gli agenti. E perché, proprio i caratteri specifici di questo episodio, come dicevo, sembrano fatti apposta per suscitare aberrazioni simboliche, e smanie, e voglie normative di non ignota fattura: a) l’uomo era di nazionalità algerina; b) la sua escandescenza si è svolta al cospetto di una Sede plasticamente, oltre che formalmente, istituzionale; c) richiamando uomini e donne presenti, che possiamo assumere a campione della popolazione tutta: s’intravedono anche due donne che, dal fazzoletto che avvolge la loro testa, sembrerebbero di origine orientale, a rendere ancor più veridica la rappresentatività dei presenti; d) i quali hanno assistito, qualcuno protestando, qualche altro, sullo sfondo affermando (nel video qui riprodotto, al minuto 7:09: non è chiaro se supponendo o auspicando), che “in America avrebbero sparato a tutti e due”; ma, nel complesso, tenendosi ad una comprensibilmente stupita osservazione.    

Ed ecco l’atmosfera, ecco un qual certo sentimento collettivo: già annunciato da quel riferimento ad un idealtipo “americano”, pistola alla cintola (sì: perché “l’homo sovieticus” che alligna in molte anime traviate, soffre pure di “disturbi profondi di campo”; e avverte il bisogno di autorappresentarsi, a suo modo, “occidentale; e andrebbe invece pure ricordato, che la “russificazione” -della Russia, con le “espulsioni”, e degli Stati circostanti, con le colonizzazioni- fu fiore all’occhiello Stalin).

Ma simili atmosfere e sentimenti, ciò che più conta, sono ripresi e rilanciati in sede politica: Valerio Mancini, consigliere regionale della Lega: “Quanto accaduto è l’ennesima dimostrazione che in certe situazioni serve il pugno duro. Con la Lega al Governo certezza della pena ed espulsione di massa“. Inutile rilevare che non si tratta di voce politicamente solitaria.

Tutto questo, naturalmente, con la questione migratoria, non ha nulla a che fare: nonostante tali e similari ciarlatanerie. Visto che la questione è seria, ma i ciarlatani, no. La prima condizione per azioni politiche adeguate alla serietà di una questione, è la verità; e non ci può essere verità, senza nervi saldi, senza la responsabilità di prevenire il fuoco, se ancora non c’è; o di spegnerlo, se è già sorto; soffiarci, sperare che cresca, per nutrire la carriera dello sciacallo, è da miserabili.

Miseria tradita da una strumentale connessione. Si pone, da un lato, una condotta individuale, rispetto alla quale si trasmette l’idea della inanità del giusto processo: evocata la “certezza della pena”, si implica che l’unico esito debba essere una condanna e, soprattutto, che quand’anche vi fosse, sarebbe comunque apparente, proprio perché “le leggi” sono d’ostacolo ad una sua “effettività”; e, dall’altro, si introduce la conseguente necessità di dare esclusivamente una lettura politica della condotta individuale, e non legale: per invocare provvedimenti liquidatori, su base di massa, che cancellino i  diritti fondamentali della persona.

Sappiamo anche che, “persona”, proprio in quanto tradotta in termini di “massa”, tende a perdere la sua individualità, sulla base di un criterio irrazionale: qui la “razza”. Sarebbe tuttavia (o, già, è) solo l’ultimo stadio di un “irrazionalismo fondativo”, costruito sulla paura. Purtroppo, e pertanto, nessuno stupore. 

Infatti, la vera Grundnorm (e non lo si ricorda mai abbastanza: nemmeno una parola da Carlo Calenda, nelle sue squisite ed oniriche divagazioni su “La Sinistra e i suoi problemi”, o qualcosa del genere), con cui si è liquidata la Prima Repubblica (l’unica che meriti compiutamente questo nome), è (eh sì; ripetiamolo) del dott. Francesco Saverio Borrelli: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali (Micromega, fine 1995).

Corruzione. Mafia. Uomo Nero (in ogni svariata accezione). C’è sempre un’Emergenza, per fare a pezzi l’uomo. In fondo, l’On. Salvini e corteggio vario, non sono altro che la prosecuzione di Mani Pulite con altri mezzi.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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