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December 11, 2017
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La banalità del male che stringe nella morsa del terrorismo New York

Quante volte nella subway guardiamo gli zaini di coloro che ci circondano? Ma ci meritiamo veramente tutti di vivere a New York?

Stefano De AngelisbyStefano De Angelis
La banalità del male che stringe nella morsa del terrorismo New York

L'entrata chiusa della Subway vicino Times Square questa mattina (Foto VNY/G.P.)

Time: 4 mins read

Un’altra volta, un altro attacco. Questa volta nessun morto, nessun ferito tranne l’attentatore, ma la paura è sempre quella, la medesima paura che sconvolge ogni città del mondo dopo un attentato terroristico, un paura che però a New York ha un significato diverso, forse più crudele.

Ebbene, soltanto poche settimane fa parlavamo di un attentato terroristico di matrice jihadista, asimmetrico ed isolato come diremmo io e I miei colleghi, con quel truck impazzito a tutta velocità sulla folla di Manhattan e lui, l’ennesimo jihadista ultraradicalizzato online, attaccare la folla all’urlo di “Allah Akbar”.

Lo sappiamo, New York è una città che va veloce, che non si ferma mai, ne tanto meno si lascia intimidire. Ma c’è un qualcosa in questo attacco che spiazza più del solito, il modo in cui se ne parla. La normalità dell’essere sotto attacco. La consapevolezza che non risponderemo. La banalità del male che si palesa inarrestabile e in tutta la sua essenza, coniando le parole di un gigante del pensiero, Hannah Arendt.

Personalmente, da persona che ogni giorno lavora per tenere al sicuro questo Paese e ben saldi i nostri valori e la nostra Democrazia, questo attacco non mi sorprende. Certo, mi impressiona vedere il Port Authority Terminal sotto assedio, quelle banchine dove centinaia di volte ho preso il bus colme di agenti della SWAT, quei tunnel impolverati che si collegano tra loro e che si intrecciano come arterie nel cuore della città, quella Ottava Avenue chiusa parzialmente al traffico senza senso del dicembre newyorkese. Ma non mi sconvolge comunque questa esplosione.

Non ricordo ormai quante volte ho preso la subway e, nel mentre raggiungevo la mia meta, guardavo gli zaini di coloro che mi circondavano. Quante volte ho pensato “e se qualcuno avesse una bomba?”. Ecco quella bomba oggi è esplosa. Una “pipe bomb” in gergo tecnico, una bomba rudimentale che si riesce a costruire con meno di dieci dollari e la cui deflagrazione può comportare effetti devastanti. Esplosa in anticipo, probabilmente perché l’attentatore avere male installato il sistema di fili che collegava l’esplosivo all’innesco, non ha fatto troppi danni. Ma ci lascia tante domande a cui dover dare una risposta.

Perché questa escalation di attacchi nella città santuario d’America? Perché questa nuova generazione di migranti provenienti da paesi a maggioranza islamica, accolti a braccia aperte dalla democrazia americana e dall’Occidente in generale, cresciuta a pane e libertà all’ombra dell’Empire State Building, ora attaccano senza pietà chi li ha accolti? E, ancora, cosa avverrà nel prossimo futuro?

È impossibile dirlo, ma forse non è difficile immaginare un continuum di questa strategia della tensione. E, bando alle ciance, poco conta le decisione di Trump su Gerusalemme capitale d’Israele, ci attaccavano prima e ci attaccano adesso.

Forse, l’unica cosa che conta davvero, è fare i conti serenamente con noi stessi come civiltà occidentale. Porci delle domande, rispondere onestamente, pensare al futuro con lungimiranza e raziocinio. Cosa ci ha portato questa accoglienza a tutti i costi? Cosa ci ha portato aprire, indiscriminatamente, le porte di casa nostra a tutti coloro che vi hanno bussato? Quanto ci sta costando questo finto multiculturalismo, perché non ci trovo nessuna cultura nell’ammazzare persone, in termini di sicurezza e libertà?

Ecco, queste e tante altre, sono le domande che istintivamente mi vengono in mente. Purtroppo sono consapevole che, in una società stretta nella morsa del politically correct e della paura, difficilmente riusciremo a trovare risposte degne dello stato di terrore in cui versiamo.

Ma un pensiero mi pervade. Quando arrivai in America, ormai un po’ di tempo fa, mi dissi che avrei dato il massimo per questa terra ricca di libertà e generosa di opportunità per ognuno di noi. Decisi di fare un lavoro al servizio di questo Paese e dei suoi ideali, decisi di combattere il terrore per l’appunto. Oggi, a margine dell’ennesimo attentato jihadista nel cuore di Manhattan, compiuto da un giovane migrante come me, mi chiedo: siamo sicuri che tutti meritino di vivere in un Paese libero, grande e giusto come il nostro? Almeno su questa risposta dubbi non ne ho: no, non tutti hanno il diritto di poter godere di questa terra benedetta da Dio.

La libertà in cui noi ci immergiamo quotidianamente è sempre più a rischio e soltanto una nuova età della ragione, con conseguente presa di coscienza del dramma che stiamo vivendo e delle scelte difficili che dobbiamo compiere per sopravvivere ai jihadisti, può salvare l’Occidente odierno dalla follia terroristica e, forse, anche un po’ da se stesso.

Torno al mio lavoro, guardo una maglietta appesa nel mio studio con su scritto “I love NY”. Quel cuore a forma di grande mela oggi piange, come il cuore di tutti coloro che amano la libertà.

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Stefano De Angelis

Stefano De Angelis

Stefano De Angelis (Chieti, 1986), è Presidente e CEO di De Angelis & Associates, società di investimenti specializzata in aziende operanti nell’aerospazio, difesa e cyber security. Conservatore e filantropo, nel 2019 è stato inserito tra i 40 under 40 CEO più influenti di New York City. Stefano De Angelis (Chieti, 1986). Observer of the International Community in a task force created by the United Nations and Nigerian Government to fight Boko Haram in the African country, is internationally recognized among the most prominent consultants on terrorist phenomena, warfare and homeland security. His books, translated in eleven languages, are best-sellers in the United States, Europe and Israel.

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