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L’incredibile impreparazione di New York al terrorismo low cost

Come è possibile che New York, luogo simbolo del terrorismo islamista, sia così impreparata ad affrontare la nuova strategia dell'ISIS?

Stefano De AngelisbyStefano De Angelis
L’incredibile impreparazione di New York al terrorismo low cost

New York, Times Square in Manhattan

Time: 3 mins read

Il terrore è tornato ad inondare di sangue le strade di New York. Stessa scena, medesima strategia, di Barcellona, Nizza, Berlino, Tel Aviv, Copenaghen. Un camion, un truck, lanciato a tutta velocità su civili inermi, su vittime innocenti. Un mini 11 settembre nei numeri, un mega shock in un’America che quasi aveva dimenticato cosa vuol dire avere il nemico nelle proprie città. Otto morti e decine di feriti sembrano poca cosa in confronto alle migliaia di persone morte incenerite dentro il World Trade Center ormai sedici anni fa. Ma è il terrore che cambia, la metodologia d’azione che è stata rinnovata.

Come in una multinazionale alla continua ricerca di nuovi prodotti da somministrare al mercato per battere la concorrenza, il terrorismo ha cambiato tattica, intuendo che non servono aerei-bomba per seminare morte e panico nelle nostre città, ma bastano comunissimi mezzi da lavoro, come un martello, un giravite, una macchina o un truck (camion) appunto, per arrivare al medesimo obiettivo. Non solo. Perfino sotto il profilo economico, anche in questo caso come una vera e propria azienda, il terrore ha scelto una politica low cost, preferendo l’attacco continuo e a “bassa intensità” (ovvero con numeri raccolti), ma che alla lunga paga forse più della strage che segnerà le pagine di storia. Costa meno addestrare l’attentatore, serve meno tempo per preparare l’attacco, il mezzo lo si affitta per qualche dollaro e in una sorta di terrorismo fa da te, si riesce a compiere un massacro. E, nel caso del truck, è pressoché impossibile fare prevenzione perfetta con milioni di veicoli che circolano in un territorio ampio come Manhattan.

La domanda che dobbiamo porci, a questo punto, è un’altra. Come è possibile che una città come New York, luogo e simbolo in cui il terrore ha cambiato la storia in quel fatidico giorno di Settembre, sia così impreparata ad affrontare la nuova strategia del fondamentalismo islamico? Ebbene, è una domanda a cui sto cercando di dare una risposta da ieri, da quando in TV scorrevano le immagini con quei corpi stesi a terra, con quel furgone insanguinato abbandonato vicino Chambers Street. Anzi, è una domanda che mi posi anche nelle settimane addietro, quando camminando vicino il mio ufficio lungo la Settima Avenue, vidi un fiume di persone camminare ai bordi della strada, il traffico impazzito della Grande Mela e nessuna, dico nessuna, barriera protettiva e volta a prevenire un ipotetico attentato. Eppure dal 2006 ad oggi, soltanto in Europa sono stati 29 gli attentati compiuti con questa metodologia, per non parlare d’Israele, dove il governo da decenni fa i conti con la strategia della bassa tensione Made in Hamas. O della Nigeria, dove per anni Boko Haram ha seminato morte con questa tecnica e dove, pochi mesi addietro, sono stati installate 420 barriere protettive nella città di Lagos,  in seguito ad una mia consulenza per il governo locale. Quindi i segnali c’erano, anzi, erano fin troppo evidenti, con i morti della Ramblas catalana ancora sulle prime pagine dei quotidiani spagnoli. Inefficienza del governo cittadino? Abbastanza. Sottovalutazione del nemico? Forse. Illusione di vivere in una città sicura? Probabilmente.

Ma ad essere in discussione oggi, in questo giorno di lutto e riflessione, non ci sono soltanto gli evidenti buchi della sicurezza newyorkese, sanabili con un’attuazione immediata di scelte forti e politiche che probabilmente desteranno infiniti e sconcertanti dibattiti tra esteti e seguaci del politically correct. Non c’è solo un programma governativo, il VISA Diversity Program, che ha consentito all’attentatore uzbeko, Sayfullo Habibullaevic Saipov,  di poter vivere in America, di potersi costruire un futuro in questa terra libera e democratica, per poi uccidere otto persone, in nome appunto della diversità.

C’è tutto un concetto di società ad essere messo quanto meno sotto osservazione. Un multiculturalismo che inizia a cedere sotto le bordate del terrorismo Islamico; un’integrazione impossibile di fondamentalisti che vedono nelle istituzioni democratiche e nell’America un nemico da distruggere; un’accoglienza a tutti costi che elargisce e garantisce diritti per tutti, ma non altrettanti doveri e garanzie su chi accogliamo.

Viviamo tempi difficili e questo lo sappiamo. Siamo sotto attacco e talvolta ci rifiutiamo di ammetterlo. Ma una cosa ho capito in questi anni spesi in prima linea nella lotta al terrore: non esiste libertà, non esiste democrazia e non esiste futuro in una società che rifiuta di difendersi dal nemico e di affrontare le proprie paure.

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Stefano De Angelis

Stefano De Angelis

Stefano De Angelis (Chieti, 1986), è Presidente e CEO di De Angelis & Associates, società di investimenti specializzata in aziende operanti nell’aerospazio, difesa e cyber security. Conservatore e filantropo, nel 2019 è stato inserito tra i 40 under 40 CEO più influenti di New York City. Stefano De Angelis (Chieti, 1986). Observer of the International Community in a task force created by the United Nations and Nigerian Government to fight Boko Haram in the African country, is internationally recognized among the most prominent consultants on terrorist phenomena, warfare and homeland security. His books, translated in eleven languages, are best-sellers in the United States, Europe and Israel.

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