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September 24, 2017
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L’uomo, la donna e la caccia rovesciata

In epoca arcaica era la donna l’inseguitrice non l’inseguita, era la violentatrice non la vittima

Elisabetta de DominisbyElisabetta de Dominis
L’uomo, la donna e la caccia rovesciata

Venere e Cupido piangono la morte di Adone (Cornelis Holsteyn, 1647)

Time: 3 mins read

Lui delle donne così belle non le aveva mai viste. Danzavano intorno a una fonte e sembrava non toccassero terra. Già a guardarle ne fu rapito. Ila si chiamava ed era un giovane caro ad Eracle, che l’aveva portato con sé nel viaggio degli Argonauti lungo il Mar Nero. La nave aveva fatto una sosta e Ila era sbarcato alla ricerca di una fonte d’acqua dolce. Si chinò per bere e una ninfa di quella sorgente lo attrasse a sé per baciarlo. Ila scomparve.

Adone era così bello che se ne innamorarono sia Afrodite che Persefone. Ne seguì una contesa e Zeus stabilì che Adone avrebbe dovuto trascorrere quattro mesi con la dea dell’amore e quattro con quella degli inferi; gli ultimi quattro poteva fare quello che preferiva. Mentre il giovane cacciava, un cinghiale inviato da Artemide lo uccise. Una vendetta di donne: la dea della caccia si era vendicata della morte del suo protetto Ippolito, che Afrodite aveva provocato.

Ogni notte Selene, la dea Luna, abbandonava il cielo e scendeva a guardare il bellissimo Endimione che dormiva in una grotta. Pregò Zeus che il giovane non invecchiasse mai. Il re degli dei glielo concesse purché Endimione non si risvegliasse più. La dea accettò per averlo per sempre.

In epoca arcaica era la donna che cacciava l’uomo: era l’inseguitrice non l’inseguita, era la violentatrice non la vittima. Era padrona del suo destino. Il poeta Orfeo viene sbranato dalle Menadi invasate. Ulisse è imprigionato dalla maga Circe che trasforma i suoi compagni in maiali. Con la vittoria degli invasori indoeuropei, che intorno al 1200 a. C. impongono il patriarcato in tutto il bacino del Mediterraneo, la caccia sessuale femminile rimane confinata nel mito e la violenta caccia maschile diviene una realtà che si perpetra fino ai nostri giorni.

Dall’inizio dell’anno sono oltre cinquanta le vittime di femminicidio solo in Italia, lo scorso anno più del doppio. Il rancoroso maschio frustrato colpisce la femmina, rea di non essere l’icona materna che egli si era immaginato, perciò lei deve pagare, espiare per lui. Che non ha saputo crescere, diventare uomo e non regge alcuna perdita. Ma quanta parte di colpa hanno pure le madri che non hanno lasciato camminare da soli i propri figli? Madri che in fondo sono come quelle dee che hanno preferito tenerseli vicini impotenti, come morti, di certo non uomini. E pesante è anche la responsabilità delle forze dell’ordine che quasi sempre sottovalutano il problema e archiviano le denunce. Carabinieri che non hanno una preparazione psicologica per interrogare e recepire la gravità del caso.

La nostra cultura è malata perché non insegna a pensare in maniera logica agli studenti che, una volta adulti, non saranno in grado di giudicare con equità. Il pensiero è distorto e modifica la percezione di quello che è giusto per una comunità in quello che è utile. Abbiamo forgiato una società di utili idioti che devono produrre utile.  Ad esso ci inginocchiamo come davanti a un dio. Asessuato stavolta certamente, ma proprio per questo ancor più pericoloso. Perché si serve della cultura patriarcale per affermare la sopraffazione del più forte che diviene il più ricco. L’unico credo è: il fine giustifica i mezzi. Ecco allora che in questi giorni sorvoliamo sull’imposizione della compagnia aerea Ryan Air ai dipendenti di non fare ferie poiché devono produrre maggior utile; quindi le risorse umane sono considerate risorse da sfruttare come degli schiavi. Assistiamo attoniti alla violenta determinazione del premier spagnolo Rajoy di passare alle armi tutti gli indipendentisti della Catalogna, che lo Stato spagnolo non può perdere perché è la parte più produttiva del Paese. Lo stato maschio non concede alla sua gente femmina di separarsi, perché ne ha bisogno per nutrirsi.

Giovedì scorso la modella musulmana somala Halima, naturalizzata americana, ha sfilato con il velo per Max Mara. Non l’è bastato aver vissuto in un campo profughi del Kenya che, se una sotto il velo ha un po’ di cervello, dopo quello che ha passato dovrebbe prendere le distanze dalle propria cultura maschilista d’origine. Halima ha dichiarato che ha voluto dare un messaggio positivo (appunto, musulmano) e infrangere le regole (appunto, della civiltà occidentale). Ma quella che davvero mi ripugna è la scelta dell’azienda italiana Max Mara di far sfilare la sottomissione femminile al solo fine di acquisire nuovi mercati e aumentare l’utile. E quando leggo che lo sviluppo del concetto di inclusione in un mondo globale deve prevalere sulla proiezione del sé e della propria cultura, capisco che l’abbiamo già venduta per riempire la pancia a quell’altro sé che è pronto a sgozzare la propria madre, moglie o figlia che sia.

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Elisabetta de Dominis

Elisabetta de Dominis

Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

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