Due giorni prima, giovedì 17 Agosto, mentre ero in macchina Grande Raccordo Anulare di Roma, la radio aveva dato notizia del furgone che si era lanciato a tutta velocità lungo la striscia pedonale delle Ramblas di Barcellona, cercando di investire più gente possibile. Nessuno aveva confermato che si trattasse di terrorismo, ma mi era apparso subito ovvio. La notizia mi riguardava. Il giorno dopo sarei andato a Barcellona a trovare un amico per alcuni giorni di vacanza. La sera guardavo le notizie, provando a capire se fosse stato il caso di disdire tutto. Ma non l’ho fatto. Razionalmente non c’era motivo. Chi ha letto qualcosa di psicologia cognitiva, ed è il mio caso, sa che un’euristica mentale chiamata “availability heuristic” (euristica della disponibilità) ci porta a dare un peso spropositato a informazioni e fatti che ci appaiono più vividi nella nostra memoria. Il fatto che ci fosse stato un attentato terroristico in quel posto non rendeva più probabile che ce ne fosse un altro nell’immediato. Semmai il contrario. Sono partito, come da programma.
Barcellona è una città che un po’ conosco. L’ho visitata varie volte. Tutti gli anni, a fine Febbraio, ci passo tre o quattro giorni per il Mobile World Congress, la Mecca annuale dell’industria della telefonia mobile e di tutto ciò che vi ruota intorno. In quell’occasione le giornate si passano allo stand della ditta, oppure camminando su è giù per i padiglioni della fiera per raggiungere il luogo degli incontri con altre aziende del settore. Questi meeting “a raffica” sono il vero valore della conferenza, con buona pace dei miei amici che mi chiedono quali mirabolanti novità abbia visto alla Fira, cogliendomi impreparato.
Tipicamente, l’attività frenetica dell’MWC non lascia molto spazio al godimento della città. Finalmente potevo godermi Barcellona da turista, senza orari da rispettare, con hotel e ristoranti a prezzi normali. Il mio amico Andrea, un teenager italiano di 36 anni, ha un bel appartamento nel Barrio Gotico. Il piano era quello di coinvolgermi nella sua vita turbinosa di bevute e incontri con gente di tutto il mondo nei bar della movida barcellonese.
Ufficialmente nulla era cambiato. Venerdì 18, la sera del mio arrivo, il piano era ancora quello di lanciarsi nei “pub crawl” alcolici per cui la capitale catalana è famosa. Però, ad un giorno dall’attentato, l’atmosfera non era quella gioiosa che avevo pregustato nelle settimane precedenti. Non che la gente apparisse triste, ma i dialoghi erano dominati dall’esperienza del giorno prima. Ho parlato con Anna, una ragazza svedese amica di Andrea e con cui condividevo l’aver vissuto ad Oslo in momenti distinti della nostra vita. “Tu dov’eri durante l’attacco?” mi ha chiesto Anna in Norvegese (era la nostra lingua franca!), seduti all’aperto al tavolo di un bar in piazza George Orwell. “Io sono appena arrivato. Ho sentito dell’attentato alla radio. E tu?”. “Io ero nel mio ufficio. A poche centinaia di metri da Las Ramblas. Mi ha avvisato di quanto stesse accadendo una mia amica”.

Ad un altro bar, un paio d’ore dopo, mi sono trovato a chiaccherare con Philip, uno psico-terapeuta parigino al suo ultimo giorno di vacanza prima del rientro. Lui era in piazza Catalunya e all’inizio del trambusto si era rifuggiato nel piano interrato di un MacDonald, appena prima che abbassassero le saracinesche e si trovasse costretto a rimanere dentro per alcune ore prima che aprissero di nuovo e uscissero tutti con le mani sulla testa. Insomma, il ricordo era ancora vivido e tutti avevano la necessità di rivivere quei momenti e di simulare mentalmente diverse situazioni.
È Sabato 19. La sera prima abbiamo fatto le ore piccole, che poi alle 5 del mattino tanto piccole non sono più. English breakfast alle due del pomeriggio all’Irish Pub di Piazza Xirau insieme ad Andrea e ad Antonella, un’amica di Andrea di Milano. Simpaticissima. Voglio andare a vedere le Ramblas. Andrea e Antonella non sono entusiasti dell’idea. “Perché?”, mi chiedono. Domanda giusta. Non so bene cosa rispondere. Forse è la necessità di rendersi conto con i propri occhi. Oppure la voglia di essere testimoni del proprio tempo. Andrea e Antonella mi accompagnano fino alla Ramblas. Un lago di fiori e candele ricoprono il mosaico di Mirò, il luogo dove il furgone ha arrestato la sua folle corsa.
Al centro una tela con il disegno di una bimba che piange e la scritta “Pray for Barcelona”. Tutto intorno una folla di turisti che osserva e fotografa. Andrea vuole andare via, ma io ho bisogno di raccogliere i miei pensieri. Voglio anche fare qualche foto col cellulare. Dico ad Andrea che lo raggiungo più tardi e mi incammino su per Las Ramblas verso piazza Catalunya. La strada brulica di turisti. Di tanto in tanto un assembramento di persone marca il luogo in cui ogni sfortunata vittima ha incontrato il suo crudele destino. I pupazzetti accanto le candele indicano che lì è morto un bambino. Un tazebao improvvisato permette alla gente di lasciare messaggi su dei post-it. Alcune troupe televisive sono ancora operative e intervistano la gente. Arrivo a Piazza Catalunya. C’è un altro improvvisato altare ai piedi della colonna che segna l’inizio delle Ramblas, il luogo dove il furgone ha iniziato la sua folle corsa omicida. Mi fermo a riflettere. È il momento delle domande. Perché qualcuno arriva a compiere un atto tanto atroce quanto vile? La risposta è apparentemente chiara: si tratta di un vero e proprio atto di guerra dell’ISIS contro un paese occidentale. Eppure i conti ancora non tornano. Le notizia di oggi, così come quelle relative ad attentati passati, confermano che, più spesso che no, si tratta di giovani mussulmani occidentali, a volte persino gente nata in Europa. Giovani che vanno in discoteca e che vestono all’occidentale. Chi glielo fa fare di votarsi alla morte? Davvero questi credono che ci sia un paradiso con 72 vergini ad attenderli come ricompensa dei loro crimini? Arrivo a rispondermi da solo. La risposta è sì. Ci sono menti influenzabili che arrivano a credere queste cazzate al punto da fare cose orribili e sacrificare la loro stessa vita. La cosa può sembrare assurda, ma non lo è per chi ha fatto qualche lettura su come funziona la mente umana e i tranelli ai quali essa è soggetta. Provo a spiegare.

Per dare un senso a tutto questo occorre iniziare da quella che è sicuramente una capacità unica della specie umana. Quella che ci contraddistingue da tutti gli altri animali, scimmie comprese. Questa capacità è la Narrazione. Ognuno di noi costantemente inventa storie, grandi e piccole, per dare un senso al mondo che ci circonda e alla nostra vita. In alcuni casi la narrazione riflette la realtà, ma più spesso la narrazione distorce la realtà ad uso e consumo del suo narratore. Volendo fare un paio di esempi banali, se chiedeste a un operaio quanto profitto dovrebbe fare l’azienda per cui lavora, probabilmente non vi stupireste troppo se quello rispondesse: “I ricavi devono essere distribuiti ai lavoratori e alle loro famiglie. Va bene anche se il profitto dell’azienda è zero”. Idea interessante, anche se non proprio nuova. Però, sarebbe anche il racconto del mondo ideale che l’onesto lavoratore raffigura per se. Che coincidenza!
Se, dopo aver parlato con l’operaio, prendeste l’ascensore per andare ai piani alti a parlare con l’amministratore delegato, potreste chiedergli: “Esimio dirigente, quale carico fiscale è quello corretto per un’azienda come la sua?”. Non vi stupireste troppo se quello rispondesse qualcosa tipo: “Il carico fiscale deve essere ridotto al minimo, magari il 15%, o anche meno. Perché deve sapere, caro signore, che esiste la ‘trickle-down economy’, che spiega che se lasciamo che i ricchi facciano i soldi, poi quelli spendono e spandono e nel far questo arricchiscono l’intera società!”. Che storia meravigliosa anche questa! E che coincidenza! Un’altra narrazione che casca a pennello per l’esistenza di chi l’ha appena raccontata.
Ovviamente non stiamo parlando di eccezioni. Ogni uomo inventa storie. Grandi e piccole. Senza farci caso. In ogni momento. Magari solo per il gusto di non trovarsi in scacco con l’accusa di essere incoerente con qualcosa detto prima, o per non apparire preda di sentimenti poco edificanti come l’invidia o l’avarizia. Oppure, come negli esempi sopra, per giustificare con se stesso e con gli altri il proprio comportamento e ruolo nella società. La mente umana funziona così. In generale, non c’è nulla di male nella narrazione. La narrazione è potente e, soprattutto, ci serve. Come detto, serve a noi come individui per dare un senso alla nostra vita. Ma serve anche a noi come società per permetterci di funzionare bene insieme quando facciamo squadra. Come ha scritto uno che ammiro molto, Yuval Noah Harari, provate ad andare da una scimmia e proporle: “Cara scimmia, se sacrificherai la tua vita per la mia causa, io ti prometto la vita eterna dopo la morte in un posto dove avrai tutte le banane che vuoi!”. Difficilmente la vostra perorazione otterrà l’effetto sperato. Invece, quando si tratta di uomini, la narrazione funziona alla grande. Guerre a parte, la promessa della vita eterna ha permesso la costruzione di piramidi, cattedrali e un gran flusso di soldi e ricchezze a dei tizi vestiti buffi a ogni latitudine.
Il giorno che ho compreso la Narrazione e il suo ruolo nella vita di ognuno e in quella delle comunità a cui apparteniamo, ho cominciato finalmente a comprendere quanto inutili siano spesso l’infinità di discussioni in cui tutti ci troviamo ingarbugliati al bar così come su Facebook. Cosa è una tipica discussione tra gente comune se non il confronto tra narrazioni diverse e il tentativo, assai spesso futile, di trovare incoerenze nella storia l’uno dell’altro? “Quello fa tanto il cattolico apostolico, ma è un gran figlio di buona donna”. “Quell’altro fa il moralista, ma ha fatto il condono fiscale”, “Quell’altro ancora dice di essere di sinistra ma è al soldo degli industriali”….solo per nominare alcuni evergreen. A peggiorare la situazione i bias cognitivi. Su tutti il Bias da Conferma, che porta ognuno di noi a cercare e ricordare fatti, notizie e dati che corroborano le nostre idee esistenti (e la nostra narrazione!), ignorando al tempo stesso fatti e dati che offrono un controesempio. Di certo, nella società moderna, non facilitano le cose giornali e televisioni che hanno il rafforzamento dei bias dei loro lettori di riferimento nel loro business model. Ad esempio, il lettore di Libero troverà in prima pagina la vecchietta derubata da un ignobile immigrato clandestino, mentre Il Manifesto darà risalto ai poveri immigrati che, armatisi di scopa e paletta, hanno pulito il centro di Bari alla facciaccia dell’ignavia degli italiani. In breve, la maggior parte delle discussioni sono inutili. Lungi dal convergere, le discussioni acuiscono le posizioni divergenti. Il bias da conferma porta le gente a vedere la realtà che vogliono vedere (con l’aggravante che ognuno pensa di aver fatto ricerche come se fosse uno scienziato). Sommando Narrazione e Bias da Conferma ciascuna persona può arrivare a un risultato impressionante: la fede incrollabile in idee balorde. Una volta esposti a un’idea di partenza con un certo appeal, ecco che tramite la ricerca costante di conferme si arriva a granitiche certezze che, spesso, fanno ridere chiunque abbia la possibilità di osservare dal di fuori.

Fenomeni di esaltazione ci sono stati nella storia dell’umanità. Personalmente, sono arrivato alla conclusione che religioni e ideologie non siano altro che narrazioni collettive a cui una comunità aderisce. Ma, mentre nei vecchi tempi le cose si muovevano più lentamente, l’arrivo dei mass media prima e ultimamente di internet hanno funzionato da catalizzatori, rendendo i processi cognitivi che portano alla narrazione, anche quelli sballati, estremamente più rapidi. Fino a poco tempo fa, un mattacchione che partorisse un’idea bislacca non aveva che da andare fino al bar sotto casa per sentirsi etichettato come “diversamente intelligente”. Con il web, le cose sono cambiate. Su internet il mattacchione ha molte più possibilità di incontrare altri mattacchioni che la pensano come lui, seminando e nutrendo i rispettivi bias da conferma. Alla luce di questo è facilmente spiegato l’avvento di movimenti bizzarri quali anti-vax, credenti nelle scie chimiche, veganisti, neo-nazisti, partiti politici con programmi improvvisati, insignificanti e non attuabili, seguaci di tycoons che raccontano favole di un’America sfruttata dagli altri paesi e, aimè, gente che crede che il loro dio gli abbia detto di convertire il resto del mondo all’Islam più medievale che si possa concepire. Dietro a ognuna di queste cose ci sono narrazioni a cui le menti umane, specialmente quelle meno sofisticate, trovano facile aderire. Le narrazioni trovano sponda nei desideri, nelle invidie e nelle necessità di quelli che finiscono per aderirci. Gli operai del secolo scorso trovavano elementare aderire al Marxismo nel momento in cui questo significava in alcuni casi rivendicare migliori condizioni di vita per se e per le proprie famiglie e in altri la rivalsa per l’invidia verso classi sociali più agiate. I coloni americani trovarono bellissima la narrazione che il creatore ci ha resi liberi e quindi non occorreva pagare le tasse agli inglesi. I principi germanici trovarono assolutamente convinciente la lettura di Martin Lutero della bibbia, che demoliva la pretesa del papa e del vaticano di essere il gateway con dio. E se poi volessi divertirmi ad andare indietro, perché stupirsi di religioni che raccontavano all’uomo che lui non era parte della natura, bensì un essere superiore scelto da dio e in funzione di cui dio non solo aveva creato la natura stessa, ma l’aveva messa a disposizione dell’uomo per fare un po’ quello che diamine gli pareva?
Cosa sia la Narrazione oramai dovrebbe essere chiaro. Essendo questa la situazione, il problema si inquadra abbastanza semplicemente. Molti giovani mussulmani sono sessualmente repressi. Non hanno accesso alle donne mussulmane per motivi culturali e hanno difficile accesso a quelle occidentali, dal momento che frappongono loro stessi barriere culturali per come intendono il ruolo della donna nella società. La narrazione è quella di 72 vergini che, per giunta, per qualche specie di miracolo, magicamente sarebbero più abili a letto di quanto i terroristi fai-da-te lo siano nel manipolare esplosivi. Per quanto assurda, basta che una minoranza esigua di soggetti più influenzabili accetti questa visione ed ecco materializzarsi dal nulla alcune centinaia di potenziali kamizake in giro per il mondo. Francamente, conoscendo un po’ di psicologia cognitiva e la capacità di internet di disseminare informazioni in maniera capillare, sarei stupito se non fosse così.
Ovviamente non tutti sono uguali e le narrazioni che portano a gesti estremi possono essere diverse e avere motivazioni diverse. Non necessariamente la causa va ricercata nella repressione sessuale, anche se penso che li’ sia da ricercare la motivazione principale. Ad esempio, il terrorista di Orlando era omosessuale e mussulmano. Facile leggere l’attacco alla discoteca gay l’anno scorso come la conseguenza di una narrazione che vedeva nella strage di altri omosessuali il modo di riappacificarsi con la propria identità di mussulmano.
Sono ancora a piazza Catalunya. Sono in piedi davanti alla camionetta dei Mosos d’Esquadra, la polizia catalana, tardivamente messa a protezione della striscia pedonale delle Ramblas ed ho le risposte alle mie domande. I terroristi altro non sono che poveracci suggestionabili che sono arrivati a credere più fortemente e più profondamente di altri alle narrazioni dell’ISIS, integrandole con quelle proprie, probabilmente scaturite dall’essere sessualmente repressi. Come in tanti altri ambiti, i terroristi credono profondamente a idee astruse, ma, diversamente dagli altri ambiti, queste idee non si confinano alla dimensione personale, bensì fanno da fondamento a comportamenti criminali e stragisti.
Torno dai miei amici. Ho un’analisi del problema, ma non sono certo di quale sia la soluzione. Per ora mi auguro che i governi, i servizi segreti e le polizie dei vari paesi arrivino ad identificare e a fermare tutti i terroristi prima che questi facciano male ad altri.