Il Procuratore della Repubblica di Catania, dott. Carmelo Zuccaro, com’è ormai noto, ha posto risonanti questioni. Delle molteplici proposizioni formulate, a compendio, se ne può qui ricordare una, scandita innanzi la Commissione Difesa del Senato: “C’è l’impossibilità di ospitare in Italia tutti i migranti economici: per le ong questo non è un discrimine, ma per uno Stato la differenza è rilevante, perché il controllo dei flussi migratori non può che competere agli Stati”.
Una dichiarazione di squisita fattura politica. Sul cui merito si può convenire o meno: ma non è qui rilevante. Dovrebbe rilevare la natura della dichiarazione, e delle numerose altre che l’hanno preceduta. La sostanza, politica, non si raccorda con la forma, giudiziaria. Ciò che, peraltro, è attestato dallo stesso magistrato, che alla Commissione ha precisato: “…io sto segnalando un pre-livello rispetto a quello dell’indagine penale, eppure ritengo sia compito del magistrato farlo” ; l’avverbio, “eppure”, esplicita l’interna tensione fra forma e sostanza. Lo scopo spiegherebbe la divaricazione: s’intendono sollecitare “…supporti investigativi che vanno al di là di quelli di cui ordinariamente si può disporre”. I nuovi “supporti investigativi” implicano evidentemente un intervento parlamentare e governativo: cioè, politico. Senza dei quali, si afferma, nessuna indagine potrà mai aver luogo.
Ciò posto, il punto, come in ogni vicenda seria, non attiene alle persone. Nel caso specifico, è unanime l’apprezzamento per l’intemerata carriera del magistrato. La questione, per chi intendesse porsela, è di ordine culturale; e di metodo.
E’ stato invocato un paradigma, ormai consueto: L’Emergenza, radice dell’Eccezione. L’Eccezione ha la sua Tradizione, in Italia, alla quale ci si è idealmente ricondotti: “Ricordo illustri precedenti di magistrati che hanno sentito il bisogno di segnalare alcune lacune legislative…il non sufficiente sviluppo delle investigazioni derivanti dalla carenza obiettiva degli organici, senza tema di poter essere strumentalizzati dall’opinione pubblica”.
La Tradizione dell’Emergenza: eccola.
Lo scopo è politico, il “mezzo” è giudiziario. Rispetto ad una dimensione di pericolo politico, comunitario, della Pòlis tutt’intera, lo strumento penalistico è sempre inadeguato. Nasce, infatti, non per i “fenomeni”, ma per le persone. Tuttavia, l’innesco valutativo di una norma penale è sempre possibile; ogni “fenomeno”, per quanto vasto, presenta sempre una coda tangibile, un appiglio a misura di condotta individuale. Solo che il calco penalistico, scavato com’è sulla creta del singolo, precluderebbe grandi avanzamenti sulla via del “fenomeno”. Così, inevitabilmente, di fronte a “fenomeni” sempre si pone la questione della debolezza, della gracilità dell’accertamento giudiziario; e allora si agisce su due fronti: quello sostanziale, e quello processuale.
Sul primo si “estende” la condotta. Il delitto materiato è un’effetto; si devono scovare le cause “predisponenti”: fra queste, in primo luogo, la tresca, che prelude all’agguato. La dimensione associativa, fatta di comportamenti in sè neutri, si connota di valore criminoso per un’intenzione: “quando tre o più persone si associano allo scopo di….”. Perciò, debitamente interpretata, è una rete dalle maglie multiformi, lanciata ad intrappolare cause “invisibili”.
Ma non basta; anche la singola condotta, deve poter avere una dimensione penalmente rilevante “un po’ meno singola”: dilaga il “concorso”. E “contributi”, che spaziano dall’azione in comune all’incoraggiamento “implicito”, al sostegno “di ruolo” (sociale, affettivo lavorativo), rameggiano a coprire incolmati “vuoti di tutela”, spazi della vita mai troppo sufficientemente presidiati. E non basta ancora: una condotta, sia pur colta in suo frammento “concorsuale”, sia pur disvelata dal suo interno psichico, diviene “visibile” solo in quanto pervenuta al piano dell’ “essere”; è allora meglio “anticipare” il Male sin dal suo concepimento, è meglio “prevenire”. Si vaga nell’immateriale, si scrutano “sintomi”. L’investigatore si fa cabalista, e governa sulle “Misure di Prevenzione”: centauro mezzo processo e mezzo indagine, grazie al quale l’assoluzione del giudizio, la resa, l’insuccesso, si rianimano di forza sanzionatoria: e si offrono, in una metempsicosi probatoria, come materiali utili per autorizzare una vigilanza minuta sulla giornata, la confisca delle sostanze. Perchè, per “prevenire”, non occorrono le stesse “prove” necessarie a condannare: e dovrebbe essere l’esatto contrario. Giochi filologici prendono il posto della Ragione.
Conseguentemente, il piano probatorio, nelle Emergenze, da studio, da analisi, diventa panoplia: incidere, catturare, captare, soprattutto, accusare: sè e gli altri. Dal Terrorismo, alla Mafia, alla Corruzione: tutto maiuscolo. Non importano i processi 7 Aprile, gli Enzo Tortora, i processi “Scarantino based”, gli Ettore Incalza assolti quindici volte, le Ilarie Capue fuggite all’Estero, i Di Pietro dei Valori, le Saguto confiscate, le indagini preliminari col falso “in C.N.R.”, quelle con le sale di montaggio per i “video-trailer”: non importa. Conta la febbre, conta la fibrillazione, conta la paura.
Questa, la Tradizione dell’Emergenza in Italia.
Nel caso di Catania non si può dire nulla di tutto questo: ma il Procuratore ha menzionato quel “pre-livello” delle indagini (l’aveva affermato qualche giorno prima alla trasmissione televisiva Agorà), da cui consta che “…alcune ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti”.
La questione, dunque, si conferma di metodo.
Con l’Emergenza, non è che “i problemi” non esistano. E’ che, se i problemi sono “politici”, le manette non c’entrano. Se c’entrano le manette, non sono politici.
Innanzi la stessa Commissione del Senato, il Procuratore della Repubblica di Siracusa, Paolo Giordano, ha detto: “A noi come ufficio non risulta nulla per quanto riguarda presunti collegamenti obliqui o inquinanti tra ong o parti di esse con i trafficanti di migranti. Nessun elemento investigativo”.
Qualche giorno dopo, è la volta del Comandante Generale delle Capitanerie di Porto, l’Ammiraglio Vincenzo Melone: “Chiunque abbia notizia di una situazione di pericolo ha l’obbligo di prestare soccorso e di condurre le persone salvate nel porto più sicuro. Un obbligo che ha qualsiasi comandante di qualsiasi nave… da sole le unità navali a nostra disposizione non ce la fanno e dunque dobbiamo chiamare a raccolta chiunque navighi in vicinanza di un evento…. Voglio aggiungere che gli scopi sociali di chi mette in mare una nave in quell’area sono del tutto ininfluenti in uno scenario di soccorso”.
Simili varietà di autorevoli valutazioni testimoniano, esattamente, non che il “problema politico” non vi sia: ma che il mezzo invocato non è adeguato.
La dimensione del “politico” si sostanzia proprio nella sua vastità “fenomenica”. La vastità implica approssimazioni, compromessi, cedimenti, avanzamenti dopo retrocessioni, stasi. Mette capo ad una congerie di competenze e di interventi (dall’intelligence, all’azione militare, a quella diplomatica, a quella macroeconomica), refrattari alla nettezza “semplice”: che invece il “penalmente rilevante” postula.
Le manette sono, o dovrebbero essere, un bisturi: che non media, non indugia: affonda.
Storicamente, ogni volta che un sistema politico si consegna ad un’Emergenza penalistica, risulta come un corpo sezionato dai tagli: a operazione conclusa, non si sa mai cosa ne è rimasto.