Il terremoto. Quel rumore che sa di morte è tornato prepotentemente nella vita degli abruzzesi. Uno squarcio nella quiete portata dalla nevicata più impetuosa degli ultimi sessant’anni, che tra danni e disagi, affascina comunque i nostri occhi. Quella paura con cui speravamo di non dover più fare i conti. Quell’incubo che rimanda a giorni drammatici.
Proprio questi fattori, miscelati con puntuale e sadica sapienza da una natura che non ne può più dei nostri abusi e che puntualmente ci ricorda la sua potenza, la sua maestosità, con eventi imprevedibili e devastanti, hanno scatenato un dramma nel dramma. Perché se fino a quarantotto ore fa il problema più grande delle popolazioni del centro Italia poteva essere limitato ad una nevicata tanto invalidante quanto ammaliante, con il terremoto tutto cambia. Con la terra che trema, si sfalda, si apre, si spacca e fa crollare i nostri palazzi come castelli di sabbia, tutto diventa relativo e il dramma dal colore bianco della neve passa a un non meno raggelante rosso sangue.
Il dramma oggi si esprime con le oltre trenta persone attualmente disperse tra la neve e le macerie di quel che fu l’Hotel Rigopiano, a Farindola nell’entroterra pescarese. Quell’oasi di pace, meta di persone innamorate della sobrietà delle montagne abruzzesi, si è trasformata in poche ore in un luogo di lacrime e morte. Quel luogo incastonato tra il Gran Sasso e il Mare Adriatico, si è addirittura spostato di dieci metri dalla sua locazione, per rendere meglio l’idea di cosa è avvenuto, per far arrivare un messaggio ancor più forte non solo agli abruzzesi, ma a tutto un Paese, a partire dalla sua classe dirigente.
Il dramma si è palesato in soccorsi partiti in ritardo, in chiamate d’aiuto rimaste inascoltate, nell’inettitudine di chi doveva agire e invece è rimasto a guardare, nell’incapacità di gestire una sciagura che forse si poteva, si doveva, evitare. In un intero Paese che si sta mobilitando, come fa ormai da mesi, in una gara di solidarietà, in cui non c’è tempo per pensare a chi ha sbagliato, ma bisogna soltanto dare il proprio meglio per salvare vite umane. Tutto questo nel pieno di una crisi economica e morale che sta logorando le nostre vite.
Il dramma, anche in questo frangente, ha riproposto uno spaccato della nostra povera Italia. La burocrazia che attanaglia i soccorsi e non fa alzare gli elicotteri in volo; un’intera classe politica che si dimena tra un talk show e l’altro per scalzare responsabilità ingombranti alle prossime elezioni; l’abusivismo edilizio, con i ponti che crollano, le strade che franano manco fossero di farina, palazzi che si staccano dal terreno come se poggiati e senza fondamenta. I morti, i troppi morti che ad ogni calamità naturale si contano a bizzeffe nel nostro Paese.
Il dramma infine, ci ha donato nuovamente i nostri eroi. Silenziosi, male attrezzati, invisibili, mal pagati, coraggiosi, sfruttati, dignitosi e inesorabili. Volendo descrivere una parte dell’Italia che adoro, è quella degli invisibili, degli eroi quotidiani, quelli che ogni giorno lavorano per noi altri malgrado uno stipendio troppe volte da fame. Volontari, medici, poliziotti e vigili del fuoco, che da ore scavano senza sosta, tra la coltre bianca che ha raggiunto i due metri e quelle macerie ormai congelate, nella speranza sempre più vana di trovare una voce, un respiro, una vita. E non li senti mai lamentarsi. Mai fare una polemica. Mai cercare la compassione di qualcuno. Se dovessi salvare un qualcosa di questo sfortunato Paese, loro sarebbero sicuramente tra i primi della lista.
Il dramma ci ha riportato quel suono, che ha squarciato un nevoso mattino di Gennaio, che continua a far paura, che rimbomba nelle nostre orecchie, che esplode nelle nostre notti insonni.
Nonostante da anni spendo la mia vita nella lotta al terrorismo, nonostante le tante cose brutte viste lungo questo percorso, nonostante il sangue e lo strazio di un attentato, nonostante la consapevolezza di combattere un nemico feroce e determinato a distruggere la nostra civiltà, ad oggi nulla riesce ad eguagliare la paura che mi infonde quel rumore, quel lampo, quel tuono che proviene dalle viscere della terra.
La mia regione come sempre saprà rialzarsi. Siamo l’Abruzzo forte e gentile, terra di pastori e intellettuali, di uomini e donne che perfino nei momenti più bui, trovano il coraggio, la sapienza e l’incoscienza di guardare al futuro, qualsiasi esso sia.
Stefano De Angelis (Chieti, 1986), è docente di Sociologia dei Fenomeni Terroristici presso la Questura di Chieti, Senior Research Fellow all’Istituto Mediterraneo Studi Internazionali, consulente governativo e autore di vari libri sul terrorismo islamista. Il suo ultimo saggio Le parole della Jihad è disponibile su Amazon.
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