Perché? Perché ha vinto Trump? Tutto il mondo si chiede il perché senza sapere il percome. Come si diventa uomini. Se non lo sappiamo, non sappiamo neanche che nella nostra società è scomparso il padre. E senza padre non ci sono figli: la catena generazionale è stata interrotta. Il populismo è la rabbia del popolo orfano. Il popolo non cresce mai: la colpa è sempre dei padri che non hanno saputo fare il loro mestiere.
Trump ha vinto perché c’è bisogno di padre. O di un dio in terra. Un padre tremendo è necessario. Trump è tremendo; altra è la faccenda se l’accezione di questo termine nella realtà sia solo negativa e non abbia alcunché di luminoso. Ma Trump è un esempio. Di successo. Con il successo si ha tutto, con la dirittura morale non è detto. Quindi non è significativo che il padre sia amorale. Lo erano anche gli dei. E anche gli dei si trasformavano come i camaleonti. Trump diventerà serissimo, bravissimo, il miglior presidente che l’America abbia avuto. Il popolo ha fede che Trump abbia le armi. Lo certifica la sua potenza sessuale che sbandiera ai quattro venti. Lo attesta la silenziosa e splendida ancella al suo fianco. La donna rimane sostituibile. Così Hillary, solo la moglie di Clinton: non era nulla più di Melania. Anzi, lo specchio rovesciato di Melania. Sono intercambiabili, finché lo specchio è uno strumento per scrutare l’immagine, non per guardarsi dentro. Hillary ha agito “nel nome del padre”. Non è stata credibile.
Ma che vuoto ha dentro un americano che vota Trump?
I cowboy hanno smarrito la mucca, hanno abbandonato la fattoria… Hanno perduto la loro identità. E sono alla ricerca del padre, un surrogato del padreterno o padre della patria, a cui assomigliare.
In questa crisi di identità, non stento a credere che il popolo, e non solo quello americano, assomigli a un Trump. E’ la somiglianza al padre che attesta la discendenza. Considerando la drittura morale del nuovo presidente, viene da dire: si salvi chi può. Ma, come dicevamo, lui è il re delle metamorfosi. E speriamo bene.
Per lo piscoanalista junghiano Luigi Zoja – autore del meraviglioso saggio, tradotto in almeno sei lingue: “Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre” (Bollati Boringheri) – si ha identità attraverso l’elevazione, la benedizione e l’iniziazione del padre. L’elevazione è il gesto che l’eroe troiano Ettore fa sollevando al cielo il figlio Astianatte. Della benedizione mi ricordo bene pure io: mio nonno me la dava sempre accomiatandosi e dicendomi di ricordarmi da chi discendevo, per non disonorare il nome dei padri. Devo confessare che mi ha segnato profondamente. L’iniziazione è il rito di passaggio che i giovani dovevano attraversare per diventare adulti. Era diverso nelle diverse società del mondo, ma il significato simbolico era il medesimo. Rifiutando la dimensione simbolica della paternità, i maschi l’hanno perduta. Cercano sempre di elevare il figlio, ma solo materialmente, tuttavia il denaro non può sostituire un dono spirituale. Volendo dei figli comodi, non gli hanno trasmesso il modello di uomo adulto. Nel volerli diversi da sé, hanno negato il proprio modello di uomo. E hanno perso il rispetto.
Abbiamo vissuto per secoli nel patriarcato: sparito il padre, che ne è stata l’istituzione, è sparito anche il contenitore, quale limite culturale.
Perché non esiste la tradizione del padre: il padre va creato, istituito con l’educazione.
“Gli Stati Uniti ci danno alcuni elementi di lettura – ha spiegato Zoja la scorsa primavera alla presentazione del suo libro alla fiera di Torino – nella famiglia afroamericana il padre è presente nel 29 per cento dei casi. Uno dei motivi per cui ricorderemo Barak Obama è che faceva campagna sull’orgoglio della paternità. In cima alla piramide americana sta il gruppo etnico asiatico dove il padre è presente nell’80 per cento dei casi. Prima di tutto l’ebraico, dove il padre conduce per mano il suo bambino”. Questo fa sì che siano i figli a generare i padri, a dargli l’identità di padre.