Tiziana Cantone si è suicidata il 13 settembre a 31 anni perché i filmati porno che aveva inviato a quattro amici erano finiti sul web, rovinandole la reputazione al punto che non aveva più amici e tutti la evitavano. Si sentiva sola, non accettata, eppure tutto quello che aveva fatto nella sua vita era proprio perseguire la fama, diventare un personaggio.
Tiziana ci sorride dalle pagine dei giornali ingioiellata e firmata dalla testa ai piedi. Si sentiva bella e voleva fare bella figura. Essere invidiata, a qualunque costo. Per dimostrare: io ho, io posso, io sono libera di fare quello che voglio. Senza rendersi conto però che aveva fatto del “cosa penserà la gente?” il suo credo e la sua prigione al punto da togliersi la vita.
E’ una delle tante giovani donne che hanno puntato tutto sulla loro bellezza. Chi sceglie di fare i concorsi di bellezza, chi la modella, chi l’attrice, chi sposare un uomo ricco. Modi diversi di prostituire il proprio corpo. Però una su cento ce la fa. E quando i trenta sono passati e tu non ti sei posizionata, come ritieni la tua bellezza meriti, per continuare ad apparire al meglio, cominci a scendere a compromessi: fare filmini porno, la escort, ecc. Non hai venduto solo il corpo, anche l’anima. Soprattutto l’anima, perché psiche e amore non possono dividersi, come racconta la favola di Apuleio. Nessuno più sa che psiche in greco antico significa anima ed eros amore. Viviamo in una società che ha fatto dell’anima un problema psicologico e dell’amore un piacere sessuale.
Tiziana soffriva di psicopatia, cioè di mancanza d’anima. Per lei, come per tantissime persone, l’importante era apparire, e questo andava perseguito con ogni mezzo. Infatti, come ha dichiarato al giudice, era stata consenziente quando aveva girato quei filmini hard.
Appareo ergo sum, invece che cogito ergo sum, perché oggi chi non si vede non è. Ma l’apparire è un fatto di costume sociale, non un valore come il pensare. Se non c’è pensiero a sorreggere una vita è perché mancano le radici, gli insegnamenti familiari, i valori fondanti di una comunità.
Una delle più antiche dee del Lazio era Vesta: insegnava alle giovani a sapersi conservare. I Latini facevano custodire il fuoco perenne della propria casata alle giovani figlie in età di matrimonio. Accanto al fuoco c’era il penus, una dispensa dove erano racchiusi i simboli degli dei Penati, tra cui il fascinus, che era il fallo sacro al dio Marte. Insomma il sesso era roba seria, perché era la continuazione della propria famiglia. I Lari invece erano gli spiriti degli antenati che vigilavano sulla crescita e sullo status dei componenti della famiglia. Quando Roma è andata formandosi, ci voleva un simbolo dell’unità della città-stato e Vesta è divenuta la dea del fuoco di Roma, che doveva essere sempre mantenuto in vita dalle sacerdotesse Vestali. Che sia stato invece Enea a portare in Lazio i Penati e il fuoco di Troia, è stata un’invenzione di Virgilio, richiesta probabilmente dal primo imperatore Augusto, che voleva accreditarsi come discendente divino non solo di Marte ma pure di Venere. Ma la storia dell’Eneide ha funzionato perché l’insegnamento è stato di gran valore morale: Enea, salvando dall’incendio di Troia i Penati, aveva potuto fondare Roma, perciò “valevano più delle case, dei templi e delle mura della patria perduta”. Valevano più di tutto, perché si può emigrare e ricostruirsi una vita se si salvano i propri valori. E’ quanto scrive in “Il fuoco sacro di Roma” (Laterza) l’archeologo Andrea Carandini, che per vent’anni ha scavato sul Palatino portando alla luce il comprensorio del tempio di Vesta. Forse Enea non è mai esistito o non è mai arrivato in Lazio, ma senza fuoco non c’è ricordo.
Gli islamici che arrivano in Italia portano con sé i loro Penati. Saranno giusti per loro, saranno sbagliati per noi, ma li hanno. Noi ormai ne siamo privi. E quando una civiltà non ha Penati, sparisce.