“Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione”, ha detto il Papa. Quando si dice la chiarezza. Però, chiarezza per chiarezza, anche la Costituzione della Repubblica Italiana – “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” – non è male. Sicchè, come si fa al bar, verrebbe da chiedersi: qual è il problema?
Forse il problema risiede nel fatto che quella dichiarazione di Francesco rischia seriamente di essere considerata omofoba: seriamente, per come va oggi la serietà, s’intende. Perché discrimina, cioè, distingue, separa. Da un lato, l’istituto del matrimonio, che, secondo Dottrina e Magistero cattolici, può riguardare solo un uomo e la donna; dall’altro “ogni altro tipo di unione”.
E si consideri che la censura sulla distinzione, in questo, come in ogni altro caso di distinzione, di discriminazione (parola che nasce dal verbo greco Krìno, esamino, decido, da cui Krìma, giudizio, esame) non è condotta in termini logici, ma clinici. Il suffisso “fobìa”, infatti, reca tendenzialmente la stessa violenza che, storicamente, ha connotato le valutazioni dell’omosessualità in termini di malattia, morbo, disordine. Si afferma che non ogni critica è fobìa, ma le rassicurazioni, quando se ne richiede una esemplificazione, cessano di rassicurare.
Basti ricordare Pietro Barilla: pensò di promuovere il marchio commerciale della sua Azienda, il noto “Mulino Bianco”, affermando: “Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale”. La reazione fu portata all’insegna del “boicottaggio”: che è misura, letteralmente, parabellica; non dialogica, né critica. E infatti, nel giro di due giorni, l’imprenditore fu costretto ad affermare il contrario: “Barilla nelle sue pubblicità rappresenta la famiglia perché questa accoglie chiunque e da sempre si identifica con la nostra marca”. E, per non lasciare dubbi al riguardo, l’On. Alessandro Zan, di SEL, disse: “Ecco un altro esempio di omofobia all’italiana. Aderisco al boicottaggio della Barilla”.
La preferenza successiva per la famiglia non tradizionale, si capisce, avrebbe potuto essere pienamente legittima (l’aggettivo è faticosa conquista: bisognerebbe ricordarsene, ogni tanto); ma solo se fosse stata libera anche la dichiarazione contraria; ma non lo è stata. Quindi in quel caso Barilla subì una violenza: nel pensiero e nella persona. Lo scarto fra le due affermazioni, infatti, fu anch’esso violento. A noi piace la famiglia tradizionale. Chiunque. Questo per dire a che punto è la notte.
Perciò, se dichiarare che piace la “famiglia tradizionale”, e che non s’intendeva promuovere la famiglia che tradizionale non era, fu considerato pacificamente omofobo, non appaia esagerato dire che Francesco, quando afferma: secondo la Chiesa, “la Famiglia è solo quella voluta da Dio”, rischia non solo di essere considerato omofobo lui, ma di trascinare nelle spire del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) la Chiesa che presiede, e pure il Buon Dio. E, si badi: è bastato, per essere additati all’insania, non avere condannato, perchè non ci fu condanna alcuna; non avere censurato, perché nemmeno censura vi fu; ma, semplicemente, non-promuovere. Il che implica che si deve, si dovrebbe, come unica condotta ammessa, promuovere la famiglia non tradizionale. E, in quattro e quattr’otto, siamo tornati all’ordodossia e all’eresia. Piaga antica e familiare, nelle nostre contrade. Un dio maniaco, dunque, un dio malato, da rieducare, magari mandandolo per qualche tempo a Chicago da Martha Nussbaum, visto che Mao, buon’anima, ci ha lasciati da un pezzo. Grottesco, se non fosse tragico. E il tragico non risiede nel contrasto, ma nel dileggio, nella violenza incapsulata e insinuante. Nel suffisso.
Questa marea di banalità e di semplificazioni abbrutisce il discorso pubblico dello stesso abbrutimento che intenderebbe fronteggiare; lo inquina della stessa violenza che pretenderebbe elidere, in realtà moltiplicandola. Se queste parole sono omofobe, equiparate all’espressione di “schifo”, di “feccia”, di “perversione”, di “malattia” (appunto), è, o dovrebbe essere chiaro, che la reazione ha superato l’azione. E che se oggi la reciproca autonomia di Stato e Chiesa suona vacua e demodè, non è perché la dignità laica, umana e culturale, sia venuta meno; ma perché lo spirito laico è stato manipolato e incistato della peggiore intolleranza fideistica: quella che si pone di fronte a chi nega, per il solo fatto che nega (pacificamente e, in realtà, solo affermando se stesso) non come un’alternativa legittima, ma come un’alterità immonda: da espellere, da stigmatizzare, da disconoscere radicalmente.
E’ ovvio che le Unioni Civili non sono Matrimonio: in nessun senso. Né possono esserlo. E che lo dica il Papa è abbastanza irrilevante, in termini logici. La voluttà nomenclatoria tradisce una dismisura e un puntiglio che si spiegano solo se inquadrate in una temperie d’avanguardismo combattente, d’èlite che supervede e trascina. E’ conquista da imporre, luce con cui abbagliare l’oscurità.
Quando, invece, in sede politica, nella Pòlis cioè, le stratificazioni secolari, o forse millenarie: di linguaggi, codici culturali, norme, abitudini, e di nomi, soprattutto di nomi, costituiscono un nucleo insieme delicatissimo e durevole, a cui ci si dovrebbe accostare con prudenza, con discernimento, con rispetto: perchè è ciò a cui credono, a cui pensano, a cui guardano come orizzonte acquisito del loro essere, milioni di persone. Per questo il matrimonio è un istituto politico e non personale. Per questo trattarne l’esistenza, la persistenza, come una pustola da eradicare, un taglio e via, mostra tutta la rozzezza e la protervia di un millenarismo grottesco.
La considerazione in termini di uguaglianza è personale. Le persone sono uguali perché sono persone. Vanno protette, in quanto persone. Si perseguitano in quanto persone. Perciò tutti, gay e non-gay (oppure, etero e non-etero) sono uguali. E si devono rispetto reciproco. Cominciando dal non sventolare camice di forza e liste di internamento.