Gli ultimi dati sull’andamento demografico e sulla composizione delle famiglie, mostrano che la parte italiana della popolazione che risiede nel belpaese ha imboccato la strada dell’estinzione. Sempre che non decidano di abbandonarci al nostro destino (cosa che da qualche anno fanno con numeri significativi), alla nostra sopravvivenza come popolo contribuiranno gli stranieri. Quella dei prossimi decenni sarà un’Italia a composizione etnica, culturale e religiosa molto diversa da quella che conosciamo, e non è detto che si tratterà di un paese peggiore, visto lo stato in cui versa oggi la “cosa” italica.
Il nostro decremento demografico, racconta l’Istat Istituto italiano di statistica, ha toccato lo scorso anno livelli mai raggiunti dal biennio 1917-1918, quando i regi comandi spedivano i poveracci arruolati per le prime linee, fuori dalle trincee a farsi inutilmente massacrare. La significativa coincidenza con il centenario della grande strage di inizio Novecento porta ad un’amara considerazione. Il declino di quegli anni di guerra fu il risultato di un omicidio collettivo, l’attuale è il risultato di una sorta di grande suicidio collettivo. Sul perché gli italiani di questo inizio di XXI secolo abbiano scelto di non riprodursi a sufficienza per garantire alla loro specie di perpetuarsi, sociologi e demografi del futuro avranno chiavi interpretative di cui noi contemporanei non disponiamo. Abbiamo però l’evidenza dei numeri, e da quelli qualche utile riflessione possiamo derivarla.
A fine 2014 la popolazione nazionale contava 60.795.000 residenti, solo 12.944 in più del 2013, saldo del quale siamo tributari alla componente non italiana delle presenze (più di 5 milioni, 8,5% della popolazione). Noi italiani abbiamo perso quasi 100.000 connazionali nel saldo tra nati e morti. E altri 70.000 nel saldo della porta girevole della residenza estera, visto che su circa 100.000 italiani in uscita, in rientro ne abbiamo avuti solo 30.000. I fattori del saldo negativo possono quindi essere così riassunti: il numero degli anziani aumenta (l’età media dell’attuale popolazione è 44,4, secondi solo ai giapponesi) le nostre ragazze non fanno figli, i giovani in particolare quelli meglio preparati ci abbandonano diminuendo la base potenziale di procreazione autoctona e cooperando all’invecchiamento statistico della popolazione.
Il mutamento della struttura della famiglia, tradizionale incentivo alle nascite e sostegno ai nati, va visto come uno degli elementi significativi del declino. Solo il 5,3% dei figli vive anche con i nonni. Il 62,4% sta con genitori e fratelli, il 17,9% solo con i genitori, il 6,5% con un solo genitore. I minori di 18 anni sono in prevalenza figli unici (le coppie con minori hanno per il 51,6% un solo figlio, per il 39,9% due, per l’8,5% tre o più figli), e in numero doppio degli altri figli vivono in famiglie monogenitoriali.
Se è vero, come è vero, che non vi è legame diretto tra crisi economica e svuotamento delle culle (la possente economia tedesca non eviterà alla Rft la perdita di 10 milioni di tedeschi entro 45 anni, e la Francia è passata dal declino alla ripresa demografica senza alcun legame con l’altalenante ciclo economico), va considerato che la falcidie di ricchezza e opportunità delle famiglie, intervenuta in Italia dal 2008, ha ovviamente accentuato la tendenza all’impoverimento demografico, ad esempio spingendo altrove la nostra “meglio gioventù”, e non consentendo allo stato di disporre di risorse per sostenere la famiglia e incentivare le coppie a procreare.