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June 12, 2015
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Il ricordo di Alfredino a 34 anni dalla tragedia di Vermicino

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 3 mins read

Esattamente trentaquattro anni fa dal 10 giugno al 13 giugno gli italiani rimasero incollati alla tv per vedere le sorti del piccolo Alfredo Rampi, per tutti Alfredino, un evento mediatico senza precedenti passato alla storia come la tragedia di Vermicino. Oltre ventuno milioni di telespettatori, una diretta continua per diciotto ore. La televisione, nella mia casa, restò accesa tutto il giorno. Era una di quelle televisioni senza telecomando. D’altra parte non ce n’era bisogno. C’erano solo i canali RAI e qualche canale locale che nessuno guardava. E tutti e tre i canali RAI trasmettevano la stessa cosa, una diretta a reti unificate da Vermicino. La sera di venerdì 12 giugno la diretta venne interrotta per trasmettere una tribuna politica. I telespettatori tempestarono immediatamente i centralini RAI per farla riprendere. Alfredino, un bambino di appena sei anni, era caduto dentro un pozzo. In poco tempo la sua tragedia e quella della sua famiglia diventerà un pezzo di storia del giornalismo e della televisione italiana.

t1Cos’era, infatti, successo dopo che il bambino era caduto dentro il pozzo? La zona intorno non venne transennata, né controllata. Cominciarono ad affluire curiosi dalle zone limitrofe. Tutta l’area, tramite il passa parola, iniziò ad affollarsi. La notizia si diffuse anche al di fuori. Un messaggio su una rete televisiva locale chiese, a chi ne fosse stato in possesso, una trivella per scavare un buco parallelo per poi raggiungere trasversalmente il bambino, che situava a trentasei metri di profondità. Tra coloro che risposero, ci fu il proprietario di uno scavatore, giornalista, inviato del Tg2, Pierluigi Pini. Da quel momento la notizia, attraverso un gioco incrociato di specchi, iniziò a circolare a livello nazionale.

Stava succedendo qualcosa di nuovo. Non era più un fatto di cronaca era diventato un evento mediatico, come mai ce n’erano stati prima. Era una storia, un racconto, o come lo definì il giornalista Rai Piero Badaloni: “un reality show terrificante”.

Vermicino, a molti ricorda quanto aveva previsto Billy Wilder nel suo film L’asso nella manica. In questo caso si trattò di un uomo intrappolato in una caverna per una frana. Un giornalista senza scrupoli, Tatum, interpretato magistralmente da Kirk Douglas, comprese che poteva tirarci fuori un grande scoop. Cercò di ritardare i soccorsi per creare clamore e attenzione intorno al fatto, che via via diventò sensazionale. Intorno al luogo si piazzarono curiosi, chioschi, baracconi, giostre, concerti. Una sorta di Luna Park surreale.

t2Così sembrò diventare, ora dopo ora, la zona intorno al pozzo, mentre si consumava la tragedia di Vermicino. Si affollavano telecamere e venditori ambulanti di panini e bottigliette d’acqua. Renato zero, quello stesso anno, a distanza di pochi mesi cantava: “se muore un bambino / c'è un teleobiettivo!». Nasceva la cosiddetta “televisione del dolore”. Ciò che i telespettatori vedevano, osservavano, percepivano era la ricostruzione, a volte confusa, caotica di quegli eventi, dove le persone coinvolte sembravano diventare personaggi di una narrazione ben più complessa: la vittima, i genitori e le loro angosce, speleologi, un fattorino magro e coraggioso soprannominato “Uomo ragno”, contorsionisti e nani; eroi improvvisati pronti a calarsi in un pozzo largo appena trenta centimetri per salvare il protagonista invisibile. E poi curiosi increduli, e addirittura l’ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che si recò nel luogo, e le facce di giornalisti che da allora diventarono note.

L’attenzione mediatica e quella dei telespettatori si alimentava in una spirale continua. Il pubblico voleva sapere come sarebbe andata a finire. I media li tenevano informati e alimentavano, con il loro racconto spesso intriso di toni drammatici, emozionati, tale sete di sapere. Fu chiaro, che, da quel momento, la televisione impose le sue “grammatiche” comunicative al giornalismo. Il racconto giornalistico diventa fortemente condizionato dal format televisivo.

Il 1981 fu un anno tragico per l’Italia. In un mese esatto, dall’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio, fino a Vermicino, l’Italia e la rappresentazione di se stessa, attraverso quei fatti descritti e costruiti giornalisticamente, muterà profondamente. Si capì che il giornalismo avrebbe dato vita a veri e propri media events, cioè ad una rappresentazione della realtà non tanto specchio, ma creata e definita proprio sui media, percepita da telespettatori come fosse una realtà primaria e non ricostruita. Da quel momento il mondo dell’informazione non sarebbe stato più lo stesso, ma mai altro caso avrebbe avuto quella concentrazione mediatica che ebbe la vicenda del povero Alfredino.

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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