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November 7, 2014
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Cosa significa essere italiani oggi? I giovani e la scuola che non aiuta più a capire l’identità

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Giovani italiani sventolano il tricolore per la vittoria del Mondiale del 2006

Giovani italiani sventolano il tricolore per la vittoria del Mondiale del 2006

Time: 5 mins read

 

All’inizio del corso ai miei studenti davo, senza nessuna riflessione introduttiva, un quesito al quale rispondere: Cosa significa per me essere italiano? 

Al loro stupore iniziale, probabilmente perché molti si aspettavano altro, seguiva il mio, dopo aver letto quanto descrivevano, spesso di getto, sul loro foglio. Uno stupore che nasceva dal fatto che la maggior parte di loro non si era mai posta la domanda, non aveva idee a riguardo. Alcuni rimandavano alla fatalità di essere nati in un luogo piuttosto che in un altro, altri si riconoscevano nei simboli nazionali, alcuni sembravano rassegnati e avrebbero preferito appartenere a paesi diversi. Pochi, allora, dimostravano sensibilità al tema, riconoscendo la propria italianità in una sorta di pluriappartenenza che partiva da quella familiare, e che, come cerchi concentrici, si espandeva verso appartenenze più larghe, il paese o la città, la regione, l’Italia, e poi la “confusione”, nel senso di fondere  insieme italianità ed identità europea, e poi un piccolo numero che si definiva italiano come cittadino del mondo, in quanto appartenente ad una concezione universalistica umana ed innata nel DNA italiano.

Tuttavia, l’elemento più sconcertante emerso era la lontananza dal tema. Come un qualcosa che non li riguardasse. Ho pensato che la causa fosse, visto che si trattava di studenti al primo o, al massimo, al secondo anno universitario, la concentrazione nella dimensione individuale, cioè nella costruzione dell’identità individuale, spesso definita in prossimità, cioè nelle relazioni familiari, del gruppo di pari, nei progetti di studio, tempo libero, nei social networks, ecc… La dimensione dell’identità collettiva era praticamente assente. Questi studenti mostravano, a mio avviso, la prevalenza di quella che il sociologo Norber Elias chiamava la società degli individui, cioè individui come gli attori protagonisti nella costruzione del sociale. La dimensione che viene a disarticolarsi è quella della socializzazione, cioè dei processi sociali e della conoscenza che devono essere tramandati affinché la società possa mantenere un ordine nel corso del tempo.

Mi ero chiesto, quindi, cosa le scuole, prima dell’Università, avessero trasmesso sul senso di vivere in un paese piuttosto che in un altro, sulla dimensione sociale e storica di una cultura, sul fatto che nascere in un luogo piuttosto che in un altro determina effetti essenziali nella condotta individuale. Sul perché il chi siamo appare così sfumato nel rispondere alla domanda chi sono. 

Riflettendo su questo ho ritirato fuori gli atti di un Convegno sul tema Identità italiana tra Europa e società multiculturale , che si è svolto a Siena ormai qualche tempo fa’ e che ha visto la partecipazione di eminenti studiosi. In particolare, uno dei testi descrive, attraverso le parole degli studenti, l’italianità trasmessa dalle scuole. Ne scrive Susanna Mantovani, docente universitaria di Pedagogia, che durante i suoi corsi ha chiesto ai suoi studenti di ripercorrere quanto la scuola gli aveva trasmesso del senso di appartenenza al noi italiano. Ne viene fuori un quadro ricco di capacità riflessive ma povero nei contenuti. La cosa più paradossale è che la metà non ricorda, in un modo o nell’altro scrive:  “mi dispiace, non mi viene in mente niente…”. 

Sono studenti smemorati? Poco attenti? Può darsi, forse non hanno neanche ben compreso la domanda. Non gli è chiaro cosa s’intende identità, e non certo facile rispondere, perché essa può essere diversa se cambia il punto di vista. E poi l’identità non richiama più un concetto rigido e fisso ma qualcosa di mutevole e in continua trasformazione. E’, invece, molto probabile che la scuola abbia trasmesso qualcosa poco degno di essere ricordato. Qualcuno richiama il simbolo del crocifisso o la foto del Presidente della Repubblica in aula, altri il libro immacolato di Educazione Civica, altri una delle prime canzoni da imparare a memoria, l’inno nazionale, altri accenni di storia risorgimentale e il fatto che si studiava italiano come prima lingua. Altri riconoscono il noi italiano proprio in contrapposizione al compagno straniero, figlio di immigrati, ad esempio, come Giuseppe che scrive: “In questo modo, per contrasto negativo, posso definire come ci si è presentata, sotto gli occhi di tutti, la differenza con questa la nostra identità..… Poco alla volta, e come me altri, mi accorsi di come certe situazioni soffrirono per la presenza di un Noi ed un Loro differenti che, grazie anche ad altri episodi, ero italiano”. Un po’ quello che è capitato a molti italiani nel biennio post 8 settembre, che nella disgrazia generale si riconobbero come italiani proprio per contrasto con gli stranieri che percorrevano il paese. 

Qualcuno accenna al calcio e alla cucina italiana. ai grandi italiani, che seppur non lo erano ancora, almeno per cittadinanza, Leonardo da Vinci, Michelangelo e Galileo o ancora alle feste nazionali (il 25 aprile e il 2 giugno). Tuttavia, rimane la sensazione che quanto sia stato posto al centro della riflessione non abbia smosso molto gli animi. Il lavoro di ricomposizione del tema dell’appartenenza al noi è stato lasciato al libero “caos” interpretativo dello studente. I segnali più chiari sono quelli che rimandano al tema dello Stato-nazione: l’inno, la bandiera, la lingua italiana, le feste nazionali. Manca, da quello che ho potuto leggere, l’elemento culturale come elemento attitudinale, come orizzonte valoriale, come percezione del noi che determina l’io. La capacità della scuola, in altre parole, di saper entrare nella realtà del vissuto dello studente, senza calarsi dall’alto.

Quello che mi fa guardare le cose con ottimismo è la capacità di pensiero di molti di questi ragazzi che, se messi nelle condizioni di riflettere liberamente e con coraggio, tirano fuori dei pensieri degni di essere citati, come quelli di Cristina:

 

“Ho cercato in ogni modo di non affrontare questo tema per tre settimane.

Questo è senza dubbio un fatto.

Quando, per la prima volta ho cercato di decostruire il mio rifiuto e sviscerare l’argomento ho incontrato un secondo ostacolo forte. La mia assenza di ricordi.

Questo è senza dubbio un altro fatto.

Stasera cercherò quindi di saltare l’ostacolo, o, quanto meno, di iniziare ad avvicinarmi. Mi sono innanzitutto resa conto che, pensando all’argomento, ho reagito come se fossi stata catapultata a scuola e stessi per affrontare materie come storia e geografia (aggiungo solo ora italiane). Venivo colta da rigetto iniziale e vuoti di memoria molto selettivi. Mi sono infatti sempre applicata con difficoltà in queste materie, ritenendole poco interessanti, esattamente come le gite scolastiche sempre a caccia di passato, i cortei per l’Unità d’Italia e le festività scandite dalla storia nazionale. In passato ho sempre pensato che questo disinteresse fosse non solo normale, ma anche generalizzato tra i miei coetanei; ora come ora non solo non credo sia così normale, ma mi chiedo anche se questa noncuranza culturale sia esclusivamente attribuibile alle metodologie di insegnamento incontrate (molto mnemoniche, poco coinvolgenti), alla totale mancanza di “istruzioni per l’uso” volte a un’educazione civica (ricordo vagamente un libro immacolato) e alla totale assenza di attualità in classe salvo poi ricomparire magicamente all’esame di maturità… (Cristina). 

E come darle torto? 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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