“La superfluità o irrilevanza della testimonianza deve essere valutata sui fatti oggetto dell'articolato e non in relazione a quello che il testimone sa dei fatti”. Decisione di giorno 25 settembre. Pertanto, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dovrà deporre quale testimone innanzi la Corte d’Assise di Palermo. Il processo, com’è noto, è quello sulla c.d. trattativa. Sono provvedimenti di questo tenore a legittimare il sotterraneo e diffuso convincimento, e specioso per quanto è sotterraneo e diffuso, che il diritto è essenza arbitraria, tessuto elastico, una maschera burlesca dietro la quale poter sbeffeggiare con ogni sorta di marameo.
Normalmente, in ogni aula di udienza penale, da Aosta e Lampedusa, il criterio per decidere sulla irrilevanza o superfluità di una testimonianza è esattamente contrario a quello esposto. Tipicamente, accade che due poliziotti o carabinieri, nel corso delle indagini, abbiano curato insieme un atto investigativo e che insieme ne redigano la documentazione (nota di servizio, comunicazione notizia di reato e così via). Perciò, prima che abbia luogo il dibattimento, Pubblico ministero e Difensori sanno cosa quei poliziotti o carabinieri sanno rispetto a quel processo. Quando costoro vengono chiamati a testimoniare, subito dopo che il primo di essi ha deposto, sempre, dico sempre, il Tribunale chiede se il secondo “potrà riferire negli stessi termini”; e se il pubblico ministero risponde che sì, in effetti il secondo poliziotto o carabiniere ha compiuto gli stessi atti e conosce le stesse cose, il Tribunale dichiara superflua la testimonianza e il secondo poliziotto o carabiniere viene “congedato”.
Quello che qui occorre tenere ben fermo, per intenderci sul Presidente Napolitano, è che la valutazione è espressa a partire proprio da ciò che il potenziale testimone sa: conosce più del suo collega? E allora sentiamolo. No? E allora non serve. Vale a dire, si decide proprio “in relazione a quello che il testimone sa dei fatti”. Come si vede, l’esatto contrario di quello che hanno scritto a Palermo. Ovviamente, il criterio di “quello che il testimone sa”, vale per ogni sorta di testimone, investigatore, semplice cittadino, o chicchessia.
Ma consideriamo un altro esempio. Questo, invece, specifico e di un certo spessore, per dir così, storico-giudiziario. Nel corso del processo Cusani, quello della “madre di tutte le tangenti”, la tangente Enimont, quello che venne a simboleggiare la caduta della Prima Repubblica, con bava di Forlani, battaglia Craxi-Di Pietro (vinta dal primo) e comunque sfilata-gogna per tutti i capi politici del tempo, emerse anche un passaggio di denaro dal Gruppo Ferruzzi al P.C.I.. Era il marzo del 1994, c’erano già stati due suicidi offerti dalla Procura in sacrificio per voi (di Raul Gardini e Gabriele Cagliari), insomma c’era la tribuna più importante del tempo, la triste riedizione di Campo de’ Fiori o Place de la Rèvolution (oggi de la Concorde). Venne chiesto che Achille Occhetto e Massimo D’Alema deponessero. Il Tribunale di Milano ritenne le testimonianze superflue, proprio considerando quello che i testi sapevano.
Questo precedente è utile anche per un'altra ragione. Allora, i giornalisti di Penne Pulite scrissero che la decisione di non ammettere la testimonianza di Occhetto e D’Alema era stata “responsabile” e “saggia”. Espressioni che implicavano la possibilità di un’alternativa, tuttavia lasciata cadere per ragioni extraprobatorie, di complessiva valutazione di un certo contesto: altrimenti, la decisione sarebbe stata commentata semplicemente come giuridicamente irreprensibile, o qualcosa del genere. “Saggezza” e “responsabilità” alludevano a criteri ulteriori e diversi rispetto a quelli strettamente giudiziari. Alludevano alle “ricadute” che ne sarebbero potute derivare sulle imminenti elezioni politiche di fine mese (27 marzo 1994).
Ma da dove sarebbero discese queste “ricadute”? Dal semplice e crudo fatto della comparizione in giudizio, dal parlare in Tribunale. Essendo stata innescata la dinamica per cui, chiunque fosse passato in quell’aula, sarebbe stato condannato dall’opinione pubblica come “Ladro della Prima Repubblica”, evitarne l’ingresso a qualcuno, significava mantenerne integra l’immagine o, perlomeno, preservarla il più possibile da una sicura disintegrazione.
I Tribunali e i gazzettieri nati e pasciuti da quel solco conoscono benissimo queste implicazioni.
Ora si consideri che la Corte Costituzionale, in sede di conflitto di attribuzione fra i poteri dello stato (sempre drammatico ed eccezionale: per dire dell’animosità istituzionale che sorregge la faccenda), ha già stabilito che sul contenuto delle conversazioni fra Mancino e il consulente giuridico del Quirinale, Dott. D’Ambrosio, il Presidente Napolitano non deve deporre: ordinando la distruzione delle quattro conversazioni che lo avevano abusivamente intercettato; nell’Ottobre del 2013, lo stesso Presidente aveva quindi formalmente comunicato alla Corte di Assise di Palermo che non conosceva nulla rispetto al “capitolo di prove ammesso”; una morte dolorosamente imbarazzante incombe pure su questo processo (quella, per infarto, del predetto Dott. D’Ambrosio); l’Avvocatura dello Stato aveva, conseguentemente, chiesto che si prendesse atto della superfluità di questa testimonianza. E invece no.
Inoltre, il riferimento al “capitolo di prova ammesso” smentisce ulteriormente quanto scritto nell’ordinanza di cui sto scrivendo. Il “capitolo di prova” altro non è che l’esposizione sintetica delle domande che s’intendono porre al testimone. E il Presidente può scrivere che su quelle domande non è in grado di riferire nulla, proprio per quanto messo insieme da Corte Costituzionale e Avvocatura dello Stato. Proprio guardando alle domande, al “capitolo di prove ammesso”, il “sapere” del testimone è dimostrato come superfluo, perché non è un sapere, ma è un “non sapere”.
Sicchè scrivere, dopo tutto questo, che bisogna guardare alle domande, significa, ancora una volta, mostrare i muscoli, il “ti faccio vedere chi comanda”. Significa considerare le “ricadute”. Quali? Presto sapremo.