Sessant’anni fa, per scelta del parlamento francese, l’Europa, appena bambina, è costretta a bloccare il suo sviluppo, votata a restare nana e incompiuta. Il 27 maggio 1952, i sei membri della prima Comunità europea, tra i quali l’Italia, avevano firmato a Parigi il trattato sulla Comunità europea di difesa, Ced. L’anno successivo, a marzo, il socialista belga Paul-Henri Spaak, presidente dell’assemblea generale della prima Comunità, quella sul carbone e acciaio, Ceca, aveva presentato il progetto di Comunità europea politica. Uno splendido momento per chi, come in Italia Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, si battono per l’Europa federata delle nazioni appena uscite dalla carneficina della guerra mondiale.
Pensano i francesi, come faranno ancora e ancora nei decenni successivi in situazioni simili (si pensi al referendum del 2005 contro il trattato sulla costituzione per l’Europa), a rimettere la storia al suo posto e riconsegnare agli “animal spirits” degli stati nazionali il futuro del continente. Il 30 agosto 1954, nel decidere sul trattato della Comunità di difesa, l’Assemblée Nationale sceglie, con 319 preferenze contro 264, “di posporre a tempo indeterminato il voto sulla Ced”. Ad influenzare la scelta, il fatto che la Francia non voglia mettere né l’arsenale nucleare in costruzione né il seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a disposizione delle due nuove comunità, militare e politica. L’eterno nazionalismo gallo, quello che trasforma Marianne in Madonna e il macellaio oppressore Napoleone in liberatore dei popoli, si fregia di un’altra vittoria pirrica.
Per il genio politico (e finanziario) del francese Jean Monnet, padre del funzionalismo che sta ricostruendo l’Europa del dopoguerra nella pacificazione e nella crescita, è troppo: a novembre abbandona il posto di presidente dell’Alta Autorità della Ceca, da lui concepita e plasmata. Monnet capisce che il suo modello sovranazionale, che aveva trovato posto nella dichiarazione del ministro degli esteri francese Robert Schuman del 9 maggio 1950, punto di partenza della costruzione delle istituzioni comuni, è stato definitivamente cestinato dai connazionali.
La Francia si perde nei suoi incubi e rischia di disintegrarsi. Mentre le colonie le sfuggono di mano e conta perdite insensate tra Algeria e Vietnam, si fa irretire da De Gaulle, vecchio eroico arnese militare fermo all’anteguerra, che le offre la “grandeur” di “une certaine idée de la France”. Avrà buon gioco il generale presidente, una volta instaurata la “sua” repubblica, a rallentare l’integrazione sovranazionale. In compenso garantirà all’Europa, con il trattato bilaterale franco-tedesco firmato all’Eliseo nel gennaio 1963, l’asse della cooperazione intergovernativa che da allora indicherà alle istituzioni comuni le scelte strategiche da perseguire. Con quel trattato i due paesi, già storici nemici, garantiranno pace all’Europa del futuro, regalandosi lo status di “più eguali” degli altri stati egualmente membri delle istituzioni, ad iniziare dall’Italia che resterà da allora soltanto uno dei tre grandi paesi europei fondatori.
Se in quel fine agosto del 1954 la Francia avesse votato come nazione europea e non come erede di Asterix, la storia degli ultimi sessant’anni sarebbe stata sicuramente diversa. Ne avrebbe guadagnato l’Europa e il mondo. Basti guardare all’impotenza che la Francia, con gli altri partner Ue, mostra questi giorni di fronte all’insolenza russa verso l’Ucraina.