Il dott. Antonio Esposito sta male. E questo dispiace. Quando presiedette il collegio della Sez. Feriale che sancì la condanna definitiva a carico di Silvio Berlusconi stava bene: non c'è dubbio, altrimenti si sarebbe astenuto o avrebbe disposto un rinvio della trattazione. Ma ora sta male. Per la verità, sembra stia maluccio già da qualche tempo. Le prime avvisaglie affiorarono qualche mese fa, quando, per la prima volta, non poté presentarsi innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura, dove dovrebbe rispondere alle contestazioni disciplinari mossegli in relazione all'augusto giudizio. Ora però è arrivato il quarto rinvio: “dolore toracico ingravescente”. Se ne parlerà il 19 settembre. Forse. Ma non c'è fretta. La salute prima di tutto. Pertanto, auguri.
E poi nessuno sta inarcando un sopracciglio: né il Corriere della Sera, dove apparve un redazionale superleguleio, sulla prescrizione dei reati contestati nel processo Mediaset e da cui partì il battage pubblicitario per l'urgente fissazione dell'udienza, in deroga alla competenza della Sezione ordinaria e in favore di un collegio che non avrebbe dovuto giudicare. No, non avrebbe dovuto: perché il calcolo della prescrizione era erroneo e, perciò, l'urgenza in deroga infondata; peraltro, considerata la fitta e navigata prosa giuridica del rammentato redazionale, è assai improbabile che si sia trattato di errore involontario. Né lo sta inarcando, questo benedetto sopracciglio, in una pur pullulante compagnia di accigliati e preoccupati “Costituzione's Boys”, nessuno di quelli che hanno in questi anni gorgheggiato che ci si difende “nel processo e non dal processo”. Nessuno inarca. E allora non inarcherò nemmeno io. Anche perché siamo in tempi di “chi sono io per…”. Sicché, figurarsi.
Però, a proposito di quello slogan, senza inarcare (no, no, per carità), forse ci si potrebbe almeno interrogare. Sia sulla dappocaggine logica dello slogan in sé, sia su quella di chi lo ha ideato.
Quando Leonardo Sciascia (uno dei maggiori scrittori mondiali del Novecento: non è certo una scoperta, ma repetita iuvant) voleva svelare l'inconsistenza di certe enunciazioni, di certo genio gnomico da portineria, riportava il seguente dialogo (immaginario oppure autentico, chi lo sa: lo fa in Nero su Nero). Lo scambio è essenziale, quasi aforistico: “Tutti i nodi vengono al pettine”, propone pensoso l'uno; “quando c'è il pettine”, conclude lapidario l'altro.
Ora quella frasetta è della stessa natura. È ovvio che ci si difende nel processo. Quando c'è un processo. Altrimenti, se sotto le mentite spoglie di un processo c'è un risultato già acquisito (diciamo assicurato, che si capisce meglio), è allora evidente che ci si difende dal processo, proprio perché non c'è il processo.
Nel caso del giudice Esposito, si potrebbe pensare che abbia motivo di non volersi difendere innanzi il CSM (se tre indizi costituiscono una prova, quattro sono una rivelazione); e allora ci si dovrebbe interrogare sul valore di questa ipotesi: il CSM non è una sede per un giudizio sereno e imparziale? È influenzabile dall'esterno? Il giudice dei giudici? Il sancta santorum di ogni legalità, la virtù delle virtù? E allora perché quelli della frase geniale ora tacciono?
Oppure: no, innanzi il CSM ci si può difendere senza pregiudizi, cioé, di nuovo nel processo e non dal processo. E allora perché tacciono sul quarto rinvio? Perché sono dei patiti dell'etica tattica, dell'indignazione strategica.
In questi giorni credo ce l'abbiano con il presidente del Consiglio e la riforma del Senato: appelli, firme, il solito salterio corrotto fra indennità parlamentari europee (più pingui di quelle volgarmente nazionali), occupazione permanente di cattedre per sé e i prossimi congiunti (poco importa se in prime o seconde nozze), contributi discreti ma sicuri (cosa non merita la scienza, cosa la coscienza eletta di un Popolo, il peso di una sempre incombente ingratitudine!).
Ci sono costati un botto, in termini di morale pubblica e credibilità della funzione intellettuale in una società moderna, questi chierici dell'analfabetismo storico e politico. Ma non si deve demordere.
Dopotutto, "quando c'é il pettine", significa pure che un pettine prima o poi ci potrà essere.