Caro Direttore,
la lettera della signora Maria Fusco, apparsa alcuni giorni fa su La Voce di New York mi ha molto incuriosito. Lei ha parlato della sua personale storia emigratoria verso questo paese. Del suo orgoglio, e quello della sua famiglia, quando nel 1971 giurarono di diventare cittadini americani. Forse senza saperlo la signora Maria ha raccontato la storia di milioni di Italiani che nel corso di un secolo decisero (forse più appropriato, furono costretti per le condizioni disastrose in cui la nostra patria in quel tempo si trovava) di lasciare le loro case, i loro pochi beni, le loro radici per avventurarsi in questa terra americana. Lo fecero per motivi che tutti sappiamo: dare a loro ed i loro figli un lavoro ed un avvenire sereno. E questa nazione, come tante altre in cui c'è stata una migrazione italiana, ci diete l'ospitalità e l'opportunità di far valere le nostre possibilità. Nient'altro. Tutto il resto dovemmo costruircelo da soli, con mille sacrifici e mille difficoltà.
Per integrarci nel complesso mosaico Americano dovemmo prendere delle decisioni molte importanti. Una delle tante, forse la più sofferta ma anche voluta, fu quella di prendere la cittadinanza Americana. Lo facemmo non soltanto per i vantaggi che da essa potevamo conseguire, ma anche per rispetto ad una nazione che con generosità ci aveva accolto tra i suoi confini. Una legge mostruosa e senza senso che vigeva allora tra l'Italia e gli Stati Uniti ci obbligava a rinunciare alla nostra cittadinanza di nascita nel momento in cui prendevamo la cittadinanza americana. Una imposizione dolorosa che è difficile da comprendere. Accettammo l'inaccettabile perché non avevamo altra scelta. Poi nel 1992 con una accordo tra l'Italia e gli Stati Uniti si mise fine a quella odiosa legge e si permise ai nuovi emigranti di poter usufruire della doppia cittadinanza. Come sempre si scordarono di noi vecchi emigranti. Per noi niente da fare. Se volevamo riacquistare la cittadinanza Italiana dovevamo fare residenza nel nostro paese d'origine per un anno. Cioè lasciare la famiglia, il lavoro, la casa per andare per un anno in Italia.
Nel 1997 capirono che tutto questo era pressoché impossibile e decisero di aprire una finestra di qualche mese per dare l'opportunità a tutti noi vecchi emigranti di riavere la nostra cittadinanza. Non lo fecero come normalmente si dovrebbe fare. Cioè scrivere una lettera a tutti gli italiani, metterli al corrente di questa opportunità e magari mandargli un modulo da riempire per dare il consenso a riavere la loro cittadinanza. Niente di tutto questo. Annunciarono via stampa che il consolato italiano di New York era aperto dalle 9 AM alle 13 PM (quattro ore) per accettare la domanda per riavere la cittadinanza. In altri termini dovevi perderti una giornata di lavoro, andare al consolato, confrontarti con centinaia di connazionali in fila dalle cinque del mattino ed avere la porta del consolato chiudersi in faccia all'una del pomeriggio. Feci notare l'assurdità di tutto questo ad un esponente del consolato italiano di quel tempo in occasione di un concerto della banda dei carabinieri, venuti a New York per la parata del Columbus Day, che si tenne nella scuola elementare 205 di Bensonhurst in Brooklyn. Gli suggerii che sarebbe stato più opportuno, ed anche più di successo, se alcuni impiegati del consolato fossero venuti in questa scuola, allora centro della più vasta comunità di Italiani della città, per accettare le migliaia di richieste che sicuramente sarebbero arrivate. Gli feci presente che c'erano nella comunità tanti giovani capaci di poterli aiutarli nel loro lavoro. Mi fu risposto che era pressoché impossibile perché il personale del consolato venendo a Brooklyn avrebbero perso la loro protezione (forse immunità) diplomatica.
Non capii questa risposta perché non c'era affatto bisogno di questa fantomatica immunità. Sarebbero stati ospiti, come lo fu lui quella sera, di una comunità tutta italiana che li avrebbero accolti e protetti con entusiasmo. Fu così che a migliaia di italiani gli fu preclusa la possibilità di riavere la loro cittadinanza.
Alla signora Maria, che dice che non sapeva di questa legge del 1992, vorrei dirgli che anche se lo avresse saputo non cambiava di molto la situazione. Oggi abbiamo due tipi di italiani. Quelli fortunati venuti dopo il 1992, e quelli sfortunati che siamo la maggior parte venuti prima del 1992. Mentre questa ingiustizia continua abbiamo dei rappresentanti al parlamento italiano che invece di lavorare per correggerla stanno lì per perorare soltanto il loro personale interesse.
Donato D'Orazio, Brooklyn, NY