Ogni due – tre mesi a Palermo c’è un’operazione antimafia. Ogni due – tre mesi ci dicono che hanno arrestato boss importanti, pronti a ricostruire la Cupola o a scatenare una nuova faida.
Gli investigatori fanno come i bravi cercatori di tartufi. Sanno che ci sono alcuni quartieri di Palermo dove c’è la bella mafia di una volta, quella rude, spietata e stupida, e quando hanno bisogno di battere un colpo mettono mano lì, e vanno a colpo sicuro.
Siccome gli arrestati sono spesso tarati oltre che di volto anche di testa, i testi delle loro intercettazioni o le immagini dei loro colloqui fanno impressione al pubblico. Che ignora ovviamente che si tratta, in qualche modo, di reduci della mafia che fu. E confonde la parte del tutto, e immagina ancora la mafia che fa le estorsioni, le ammazzatine, i summit davanti la bella torta di cassata siciliana. L’ultima operazione, ad esempio, di sabato mattina, mostra, nel materiale fornito alla stampa e messo subito in rete, boss mafiosi che dal carcere continuavano a comandare e ad impartire ordine ai loro sottoposti.
E qui uno si chiede se davvero c’è limite alla stupidità di questi “boss”, perché si sa che se c’è un luogo iper intercettato, quello è il carcere. E da sempre tutti i colloqui in carcere di certe persone, soprattutto per quanto riguarda i fatti di mafia, sono registrati e ascoltati per bene. Parlare a bassa voce, usare il labiale, fare gesti non serve. Anzi aumenta la curiosità dell’appuntato sbobinatore all’ascolto. E quindi c’è questa conversazione in carcere dove un boss detenuto ordina al fratello una serie di esecuzioni nei confronti di affiliati che non avevano rispettato le regole. "Lo dovete seppellire con la calce viva", specifica a proposito di una delle future vittime. Il video ormai è virale. Da qui l’arresto dei Carabinieri di Palermo per 8 persone “pronte a scatenare una nuova guerra di mafia”, come recita il comunicato ufficiale.
Gli otto arresti sono il risultato di un'indagine avviata nel gennaio 2013 che ha consentito di disegnare l'organigramma dei sodalizi criminali tra le famiglie di Porta Nuova, Palermo centro e Borgo Vecchio. Permettendo di ricostruire come operava l'intera consorteria, sempre pronta a riorganizzarsi nonostante il blitz delle forze dell'ordine che di volta in volta ne decapitavano i vertici.
I carabinieri hanno fermato otto presunti affiliati al clan del "mandamento" di Porta nuova dopo avere intercettato, in carcere, gli ordini impartiti da un detenuto di rango, il boss Giovanni Di Giacomo, al fratello Giuseppe. Quest'ultimo, però, è stato nel frattempo ucciso, il 12 marzo scorso in via Eugenio l'Emiro, nel quartiere palermitano della Zisa. Temendo l'immediata reazione della "famiglia" mafiosa della quale la vittima era il reggente, i militari del Reparto operativo hanno accelerato l'indagine, denominata "Iago", e ieri notte hanno fermato otto componenti del clan, accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso. Tra i fermati anche Nunzio Milano, 64 anni, e Tommaso Lo Presti, 39 anni, che erano entrambi liberi dopo la scarcerazione.
Secondo gli inquirenti, il "mandamento" di Porta Nuova si stava riorganizzando. Dal carcere sarebbe partito l'ordine di uccidere tre uomini. Secondo gli investigatori, il boss Giovanni Di Giacomo avrebbe dato l'ordine al fratello Giuseppe Di Giacomo, di ammazzare alcuni esponenti mafiosi che si stavano organizzando per assumere il comando del "mandamento" dopo l'arresto del padrino di Porta Nuova Alessandro D'Ambrogio. Tre i delitti programmati: quelli di Luigi Salerno, Giuseppe Dainotti e dei fratelli Onofrio ed Emanuele Lipari. «Per questo è stato necessario intervenire – ha detto Pierangelo Iannotti, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo – Abbiamo dovuto eseguire i provvedimenti di fermo perché l'ordine era già stato impartito. Un ordine esecutivo. Non c'era tempo da perdere».
Nel corso dell'indagine è emerso che, dal carcere, i boss di Cosa nostra nominano i vertici dei clan. Dopo la cattura di D'Ambrogio, infatti, il successore – Giuseppe Di Giacomo – sarebbe stato designato dai boss detenuti.
A comunicare la sua nomina a capo del clan era stato il fratello, Giovanni Di Giacomo, detenuto per scontare una condanna all'ergastolo. Nel corso di un colloquio in carcere con il congiunto è arrivata l'investitura. «…. Ma poi c'è un'altra cosa che fuori non la sa nessuno, questa te la dico a te e a un certo punto dovrà venire fuori. A te ti abbiamo fatto noi altri».
«A lui – ha proseguito il boss alludendo a Gregorio… (vecchio mafioso di Porta Nuova ndr) – chi l'ha fatto? Nicchi? e chi l'ha autorizzato? E questi sono tutti abusivi, ricordatelo».
Ma l'investitura era destinata a scatenare nell'immediato risentimenti in mafiosi di peso che, scarcerati di lì a poco, non hanno la leadership del momento. Il 12 marzo scorso Giuseppe Di Giacomo, infatti, è stato ucciso. L'omicidio ha così innescato nei familiari un forte desiderio di vendetta e Giovanni Di Giacomo e il fratello Marcello avrebbero progettato di uccidere coloro che ritengono responsabili del delitto. «Nel sacco… l'importante è che lo dovete seppellire, tutto qua è il discorso». Con queste parole il boss ergastolano Giovanni Di Giacomo ordinava al fratello Giuseppe, come eliminare un mafioso che non avrebbe rispettato le regole del clan. I due hanno parlato dell'opportunità di uccidere un affiliato che non avrebbe voluto mettere a disposizione dei "picciotti" le proprie risorse economiche e della necessità di eliminare un uomo d'onore prossimo alla scarcerazione. «Certo», risponde Giuseppe al fratello che insiste: «Quacina, quacina di sopra (termine siciliano che indica la calce da mettere sul cadavere ndr). «Gli togliete i vestiti, le scarpe, hai capito? Quando viene il crasto (il cornuto ndr) battilo sempre in capo per evitare lo scruscio (il rumore ndr) ». La scintilla che ha fatto scattare i fermi è del 17 aprile scorso: «Caro Gianni la salute del bambino tutto bene, in un unico abbraccio ti siamo vicini». È il testo del telegramma con cui Marcello Di Giacomo, fratello di Giovanni comunicava al familiare che tutto era pronto per la vendetta del terzo fratello, Giuseppe. Le vittime dovevano essere Onofrio ed Emanuele Lipari ritenuti responsabili dell'uccisione di Giuseppe Di Giacomo. Da intercettazioni in carcere è emerso inoltre che il clan di Porta Nuova aveva la disponibilità di armi pesanti.
Giovanni Di Giacomo, infine, progettava col fratello Giuseppe, poi ucciso, nuove ritorsioni allo chef Natale Giunta, già vittima del pizzo. «Di Giacomo – hanno scritto i carabinieri – consigliava di fare rompere, con la porcellana, i parabrezza delle autovetture dei clienti del ristoratore parcheggiate dinanzi al suo locale; ritorsioni che avrebbero dimostrato all'opinione pubblica la forza dell'organizzazione criminale che non dimentica mai e che agisce nel tempo».
E arrivederci al prossimo blitz…