Il 6 aprile di duecento anni fa Napoleone rinuncia al trono. L’uomo che aveva messo a ferro e fuoco un continente per soddisfare l’ambizione di dare alla Francia la guida dell’Europa, è costretto a capire che i rapporti di forza gli sono contro, e si lascia condurre all’Elba. Il finto reame della prigionia isolana, accettato sotto il ricatto delle circostanze, sarà negato a neppure un anno di distanza, con la fuga e lo sbarco ad Antibes, per l’effimera riedizione di un impero ormai condannato dalla storia. Le ultime settimane di Napoleone imperatore nel ’14 saranno studiate da storici e politologi come metafora del rapporto patologico che l’ego del politico di professione instaura con il potere.
Nel 1813 il corso, fiaccato dalla beffa giocatagli dal generale Mikhail Kutuzov con l’incendio di Mosca e lo stillicidio degli attacchi alle retroguardie macerate da un orribile inverno russo, scopre che l’intera Europa gli si è coalizzata contro, pronta ad azzannare l’aquila francese ferita a morte. Le forze alleate arriveranno presto ad occupare Parigi. Gli apparati dello stato imperiale, stanchi di guerre e scioccati dalla strage della campagna russa (iniziata con 700.000 uomini e 200.000 cavalli, si era conclusa con 400.000 morti e un numero incalcolabile di feriti, 100.000 prigionieri, 10.000 cavalli sopravvissuti) escono allo scoperto schierandosi con gli invasori. Il 2 aprile 1814 il senato vota la decadenza da imperatore, un finale al quale Napoleone non può che sottomettersi.
Passano due giorni senza passi formali, perché Bonaparte vuole abdicare alle proprie condizioni, salvando dal disastro la successione del figlio Napoleone Francesco: con queste premesse, elabora una formula di abdicazione che le potenze vincitrici neppure prendono in considerazione. L’imperatore sembra non capire che ormai non può imporre un bel nulla, tant’è che dopo altri due giorni la sua diventa resa incondizionata alle potenze che gli hanno permesso di crogiolarsi per giorni nelle illusioni del castello di Fontainebleau, mentre spadroneggiano su Parigi.
La parabola politica e umana di chi aveva progettato di assoggettare l’intero continente alla spada e all’idea francesi, si colora di episodi che evidenziano la resa senza rimedio agli eventi, a partire dal tentato suicidio del 12 aprile. Quando, il 28, Bonaparte si imbarca per l’Elba, è solo. Sua moglie Luisa figlia dell’imperatore d’Austria, non solo non lo segue ma torna a Vienna da Francesco Giuseppe con il figlioletto, da subito messo sotto la tutela dell’educazione ancien régime della dinasta asburgica. Appena quattro anni prima, ad inizio decennio, l’Europa aveva il volto che Napoleone le aveva conferito; ora si appresta a smantellare, attraverso il Congresso di Vienna, ogni eredità del suo autore.
Come tutti i dittatori, Napoleone si sentirà un incompreso e un tradito. Come tutti i dittatori ha perso, nella fase finale, il senso della realtà. Lo si vede anche nel delirio con cui chiederà alla storia un’altra occasione (che non c’è) condannandosi, dopo Waterloo, allo scoglio di Sant’Elena e all’umiliazione del possesso britannico assoluto sulla sua persona. Consanguinei (il fratello Giuseppe, luogotenente generale dell’impero, ha autorizzato la capitolazione di Parigi del 1814), e generali che ha innalzato dal nulla, gli hanno voltato le spalle perché si è mostrato incapace di capire che la sua ora è finita e non ha contribuito a salvare il salvabile di un progetto che aveva fatto sognare tanti innovatori. Si è intestardito nella ricerca di come preservare il simulacro dell’impero; Mussolini ed Hitler, e più piccoli dittatori, finiranno, nel XX secolo, nello stesso modo.