“Hey Richard, mi daresti un passaggio?” ho chiesto qualche giorno fa ad un collega di lavoro. “Si ma sbrigati perchè devo andar via di corsa…” mi ha risposto lui. “Va bene. Dammi un minuto e sono subito con te” ho detto mettendo via le mie cose.
“Un minuto…? – ha replicato lui con un’espressione preoccupata – Un minuto italiano o un minuto americano?…”.
E' vero! Il tempo scorre a velocità diverse sulle due sponde dell’Atlantico: in America un minuto dura esattamente sessanta secondi mentre in Italia "un minuto” é un concetto piú fluido.
Per me quello della puntualità è sempre stato un problema. Da quando vivo negli Stati Uniti il problema è diventato più serio ma è anche vero che anch’io sono cambiato e ho la tendenza a starci molto più attento.
Malgrado ció, a volte, non posso fare a meno di provare un’inevitabile senso di fastidio rispetto alla relazione che gli americani hanno con il tempo, con la loro ossessione per la puntualità, e con la loro tendenza a considerare il tempo stesso solo in funzione produttiva.
Tuttavia quando torno in Italia, da buon cittadino di Atlantide, non riesco più a tollerare quell’approssimazione e quella vaghezza che sono un po’ la regola dalle nostre parti anche se, quando vivevo ancora lì, era una situazione che consideravo perfettamente normale. Rimango quindi troppo italiano per l’America e, nello stesso tempo, sono diventato troppo americano per l’Italia.
Grazie alla sua percezione esatta del tempo, l’americano è culturalmente in grado di pianificare, una strategia in cui l’azione personale, proiettata nel lungo periodo, risponde ad un disegno predeterminato.
Tutto ciò riflette quella fiducia tutta anglosassone, sull’efficacia della propria azione nel mondo; sulla “fattività” personale come realizzazione di se stessi, in quanto individui.
Per l’italiano invece, la tolleranza per l’approssimazione, l’accezione più flessibile dell’idea di puntualità e (come nel mio caso) un certo irrazionale fastidio per ogni eccesso di zelo, riflettono una visione più fatalistica dell’esistenza e del proprio ruolo nell’universo che è tipicamente latino-cattolica.
Messi da sempre di fronte alla inelluttabile onnipotenza divina, noi latini abbiamo una concezione più limitata della nostra personale efficacia nel mondo e, per questo, essendo la nostra percezione della vita più concentrata sul presente, sul breve periodo, ecco che, più che alla pianificazione, noi siamo piuttosto inclini all’improvvisazione.
Questa prospettiva ha lo svantaggio di essere meno produttiva; meno utilitaristica ma, a mio avviso, ha anche il vantaggio di essere più “pregnante”, più ricca e, soprattutto, più gratificante.
L’anglosassone invece, si soddisfa in genere dalla realizzazione di obiettivi e di progetti che, il più delle volte, sono “esterni” a se stesso (come nel lavoro) e, con una vita caratterizzata da un continuo passare da un obiettivo all’altro, risulta più difficile godere della ricchezza del presente e, soprattutto, della presenza di sè stessi.
Il fatalismo latino implica anche una maggiore tolleranza per l’inefficienza una caratteristica questa della nostre cultura che tradizionalmente ha avuto e continua ad avere conseguenze nefaste nel corso della nostra storia. Li conosciamo bene noi italiani i problemi causati dall’inefficienza, sia essa amministrativa, professionale o personale.
La nostra tolleranza per l’inefficienza dipende anche da un altro importante aspetto della nostra cultura cattolica: la centralità del concetto di “perdono”.
Il perdono implica una sorta di flessibilità etico-morale che porta con sè importanti conseguenze psicologiche. Il nostro Dio sarà anche onnipotente ma rimane pur sempre benevolo e, come tale, è incline al perdono. Quindi, se il “Giudice Supremo” è così disponibile a perdonare è chiaro che non esiste nulla di veramente riprovevole.
Quando applicata alla sfera sociale, questa tolleranza etica diventa anche tolleranza per l‘inefficienza e la corruzione che, a sua volta, sfocia in quel relativismo morale in seguito al quale, quasi senza accorgersene, un’intera società rischia di degenerare in una totale amoralità culturale causata dall’indifferenza, l’ambiente ideale per tutti coloro che tendono ad ottenere l’impunità per le proprie azioni.