Ha fatto scalpore l’articolo di Frank Bruni, apparso la scorsa settimana sul New York Times, specie dopo che, rilanciato in integrale mercoledì dall’edizione internazionale del quotidiano newyorkese, è arrivato anche in Europa. Bruni ha avuto gioco facile: a Milano pesca la coppia benestante pronta ad emigrare a Londra, a Roma confronta gli straboccanti raccoglitori di immondizia con le gloriose rovine dell’antichità, a Sud non mette piede ma per far colpo gli basta citare l’astronomica percentuale di disoccupati che vi albergano. Ricorda la buffonesca vicenda Berlusconi (così la chiama), l’enorme percentuale del debito in rapporto al prodotto annuo seconda in Europa solo a quello greco, la riduzione continua della ricchezza lordo in contrasto con l’affermazione sui mercati della creatività italiana. Conclude la disamina, con le firme de La Stampa e del Corriere che raccontano un paese “dove ogni cosa è inerte e congelata”, dove “la gerontocrazia impedisce ogni reale meritocrazia”. Il tenero Frank non resiste allo scempio: “There’s so much beauty and promise here, and so much waste. Italy breaks your heart”.
So what? dear Mr. Bruni? E’ così da sempre in queste contrade, ma siamo sopravvissuti a due millenni e risultiamo tra i popoli più longevi al mondo. Forse è proprio l’eccesso di bellezza a spiegare perché dalla caduta di Roma, salvo brevi parentesi e solo per certi territori, la penisola non sia mai più stata grande tra le nazioni (benché sempre amata e visitata), arrivando, dopo la riunificazione, a proporsi addirittura come la culla del fascismo, e poi come la casa del più grande partito comunista in Occidente. Ma non è il cuore a doversi rompere per la vicenda odierna, caro Bruni, è l’intelletto. Perché la denuncia sterile serve solo a far crescere le cateratte del piagnisteo, che in Italia sono già in numero mediterraneamente esorbitante. Ci siamo ritrovati un ceto dirigente che si è costruito sulla cultura del piagnisteo e del vittimismo, partendo dalla P2, passando per televisioni lacrimanti e lacrimevoli, arrivando finalmente al potere politico da gestire nel proprio interesse sempre con cuori rotti, mamme in amorperenne, pietismi e buonismi. Scrivendo di Italia potevi consigliarci da dove cominciare per ricostruire, invece di fermarti sulle macerie nella cui polvere avanziamo con fatica ragionevole, ogni giorno che Domineddio manda.
Questo è un paese fiaccato nel morale più che nell’economia. Non è al cuore che bisogna guardare per dargli soluzioni, ma alla ragione, alla mente, iniziando da ciò che un nostro grandissimo ha spiegato secoli fa: che è il “particulare” la nostra prima rovina. Il che significa che dobbiamo dare autorevolezza alla cosa pubblica, ma con donne e uomini rispettabili e interessati al bene comune, che facciano leggi giuste ed eque e siano severi nel farle applicare. Dobbiamo spingere lo stato a ritirarsi dentro i suoi confini naturali, così che smetta di saccheggiare le risorse private. Dobbiamo premiare chi produce ricchezza, come i milioni di bravi imprenditori e lavoratori, non chi la distrugge attraverso burocrazie e privilegi.
Il nostro è un paese che non ha mai avuto materie prime, e che da secoli è in posizione strutturalmente periferica rispetto alla geografia della ricchezza mondiale. Eppure, grazie ad ingegno, lavoro, rettitudine, ci conquistammo mezzo secolo fa un posto di eccellenza tra le nazioni. La ragione dice che occorre recuperare la volontà che negli anni sessanta ci spinse fuori dalla povertà di secoli, dandoci decenni di benessere e progresso. Il cuore non c’entra. Dovremmo dire con Gramsci: “sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà”.
Questo articolo viene pubblicato anche da America Oggi-Oggi7