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October 29, 2013
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October 29, 2013
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La città che ho trovato nel buio

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Time: 6 mins read

Colonna sonora: Sandy’s Crying Again, Bobby Bare

Eravamo tutti a casa di un amico su Avenue B. Il modo migliore per affrontare la notte dell’uragano, ci eravamo detti, era stare tutti insieme e trasformare la serata in uno storm party. Certo, l’appartamento del mio amico era al piano terra e in zona di evacuazione obbligatoria, ma con la solita attitudine newyorchese del “cosa vuoi che succeda” avevamo stabilito che non correvamo pericolo. Dalle finestre guardavamo gli alberi di Tompkins Square Park agitarsi al vento, ma non sembrava stesse succedendo chissà che.

Quando mi arrivò la telefonata di un amico italiano che in televisione aveva visto le immagini di Avenue C sommersa dall’acqua, all’inizio pensai che mi volesse solo spaventare. Poi, quando cadde la linea e richiamare si rivelò impossibile, decisi che era arrivato il momento di preoccuparsi. Uscimmo in strada per farci un’idea della situazione e scoprimmo che l’acqua era arrivata a pochi metri dall’ingresso dell’appartamento in cui eravamo. In quel momento andò via la luce. Tutto era buio ed era sceso uno strano silenzio. Pensai che dovevo andare a casa e verificare che da me fosse tutto sotto controllo. Lasciammo il nostro amico seduto su una poltrona al centro della stanza, immerso nel buio. “Sicuro che starai bene?”. Benissimo, rispose come un generale ferito che non ha intenzione di abbandonare il campo di battaglia.

Quando arrivai al mio palazzo, poco distante, su Avenue B, il supervisor mi accolse dicendo: “Ti sei persa i fuochi d’artificio”. C’era stato un corto circuito proprio dall’altro lato della strada, mi spiegò, ed era stato quello a causare l’interruzione di corrente. “E quanto ci vorrà ora per rimettere tutto a posto?” chiesi. “Chi lo sa.. ci potrebbero volere giorni, settimane..”.

Salii a casa. Niente corrente, i telefoni non funzionavano e internet neanche a parlarne. Ero isolata e non avevo idea di cosa stesse succedendo lì fuori. Mi addormentai in un’oscurità che non apparteneva a Manhattan. Il giorno dopo mi svegliai in un quartiere indaffarato a pulire, spazzolare, spostare cose, svuotare frigoriferi, mettere in funzione generatori di corrente, provare a telefonare, capire come stavano gli amici, i parenti. Nel mio palazzo non era rimasto nessuno. Abitato prevalentemente da studenti, si era svuotato. Nessuno di quei newyorchesi di passaggio aveva scelto di restare e di convivere con i disagi causati dall’assenza di elettricità e acqua calda. Erano corsi tutti Uptown dove c’era ancora corrente, dove potevano caricare i telefoni, connettersi a internet, dove la vita poteva continuare a scorrere, veloce e leggera, come sempre.

Il mio primo pensiero fu di trovare un telefono per far sapere a casa che stavo bene. Dovetti camminare fino alla 28ma west per riuscire a chiamare l’Italia da una cabina telefonica. A casa ne sapevano più di me di quello che stava succedendo ed erano seriamente preoccupati. Io, isolata dal mondo, non sapevo dei morti, non sapevo dei disastri a Red Hook, Rockaway, Breezy Point, Staten Island, New Jersey. Quello che avevo visto ad Alphabet City erano alcuni alberi caduti, dei basement allagati, delle insegne divelte. Risolta la questione mamma italiana apprensiva, potevo ora aprire gli occhi sulla città: una New York sconvolta che tuttavia non si fermava a leccarsi le ferite. Per parte mia, avevo un’ottima scusa per non lavorare e decisi di fregarmene dei giornali, degli impegni, e di godermi il tempo che Sandy aveva ritagliato per me, perché potessi vivere l’avventura di una nuova New York, una New York che non avevo visto mai.

Vagai a lungo, quel giorno. Andai a dare uno sguardo all’FDR che si era trasformato in un fiume che scorreva fianco a fianco con l’East River. Andai al parco, per verificare che i miei alberi preferiti fossero ancora in piedi: qualcuno aveva perso dei rami, ma per lo più erano lì. Entrai in molti negozi, per parlare con la gente, capire cosa sarebbe successo. Tutti dicevano la stessa cosa: ci potrebbero volere giorni prima che questa cosa si risolva, fai in modo di avere da mangiare in casa e non farti mancare le candele.

Poi, anche i giorni di Sandy, presero la loro routine. Ogni giorno andavo a trovare qualche amico. Senza telefoni o Facebook, l’unico modo per sapere se gli amici stavano bene era passare da casa. Dal momento che i citofoni non funzionavano, dovevo gridare dalla strada alla finestra. C’era una gioia infantile nel vedere facce amiche. Abbracci, baci e poi le domande di ordinanza: ti funziona il gas? E l’acqua calda ce l’hai? E il cellulare funziona? Hai una scorta sufficiente di candele? E da mangiare? Ognuno si era inventato qualche soluzione per scaldare l’acqua e riuscire a lavarsi, o per prepararsi da mangiare senza gas. Gli appartamenti erano spazi sospesi in un tempo diventato all’improvviso lento, scandito dal sorgere e dal tramontare del sole. Un tempo in cui le solite occupazioni quotidiane avevano lasciato il posto ai passatempo. C’era chi leggeva libri, chi faceva a maglia, chi disegnava, chi si ubriacava. C’era, soprattutto, chi chiacchierava. Un piacere autentico scaturiva dallo stare insieme senza doversi porre il problema di riempire quello stare insieme di cose da fare.

Al secondo giorno senza elettricità, internet e telefono, alcune coppie non si sopportavano più e non facevano che esasperarsi a vicenda. Altre passavano il tempo a fare l’amore. Poi, anche quelle che litigavano, finirono per fare l’amore, ché era l’unico modo per non strangolarsi l’un l’altro. Ero convinta che ci sarebbe stato un baby boom intorno a luglio 2013. La polizia, comunque, aveva un gran da fare tra emergenze, litigi e semplice panico.

La vera ossessione erano le candele perché da quelle dipendeva la possibilità di restare ancora qualche ora alzati, dopo il calare del sole. Alcuni negozi di cinici furbetti le vendevano a prezzi esorbitanti. Ma non era difficile procurarsene in altro modo: ad ogni angolo di strada si trovava qualcuno che regalava generi di prima necessità. C’era chi offriva acqua, cibo, coperte. Credo di avere ancora le lattine di tortellini in brodo e i lumini a olio che qualcuno mi regalò in quei giorni. In giro per il quartiere c’erano dei gruppi elettrogeni a cui qualcuno aveva collegato delle ciabatte e la gente, a turno, ricaricava i telefoni. Non che fosse poi così utile, visto che quasi tutti i trasmettitori erano fuori servizio.

Con la fuga degli studenti e di tutti quei newyorchesi dell’ultim’ora, erano rimasti solo quelli che sentivano che, proprio perché c’era un’emergenza, quello era esattamente il posto dove dovevano e volevano stare. Persone nate e cresciute da queste parti, quelle che il quartiere lo hanno reso quello che è, con le proprie battaglie, con la propria resistenza, con la decisione di restare, sempre e comunque. Un giorno, pochi minuti dopo che il buio era sceso sulle strade, incontrai una signora vecchissima, tutta incurvata. Era ferma sul ciglio della strada, chiaramente indecisa se attraversare. Mi rivolse uno sguardo di implorazione e capii che aveva bisogno di aiuto. Le chiesi dove stava andando e se voleva che la accompagnassi per un tratto. Per risposta mi prese sottobraccio. Le dissi che non avrebbe dovuto uscire col buio. “Sono uscita che era ancora giorno – rispose – ma poi mi sono messa a chiacchierare con quei simpatici ragazzi che distribuiscono cibo alla chiesa di St. Mark’s e si è fatto tardi. Ora ho un po’ paura ad attraversare la strada. Non vedo niente…”. Aveva poco da temere, la signora: di macchine non ne passavano e la gente che era in giro sembrava in vena di fare festa più che atti di vandalismo. Alcuni bar riaprirono il giorno dopo l’uragano. A lume di candela e servendo birre calde, offrivano alla gente del quartiere un modo per passare qualche ora fuori casa dopo il tramonto. Alcuni facevano anche dei prezzi speciali, il Sandy Happy Hour. Era come se all’improvviso fossimo tutti parte di qualcosa. Come se scoprissimo di essere un organismo unico, parte del quartiere come lo sono i palazzi, gli alberi, le panchine.

Un giorno fui costretta ad andare a Midtown: dovevo dare notizie a casa. Venendo da quella parte di città dove tutto era rimasto sospeso in una parentesi al cui interno avevamo riscoperto l’umanità di una città costretta a mettersi in pausa, quando attraversai la trentottesima e mi accorsi che tutto scorreva normalmente, fu scioccante vedere la gente indaffarata nelle sue solite attività quotidiane. Quasi mi dispiaceva per loro. Andai in uno Starbucks su Lexington ed era gremito di gente: tutti a cercare una presa di corrente, un wi-fi a cui connettersi. Ogni tanto qualcuno del personale ricordava che bisognava dare la priorità a chi veniva da Downtown e che era necessario fare turni brevi. Nonostante il mio status di residente di Downtown, non riuscii a conquistare la mia presa di corrente. Mi ritrovai nella sala di una banca che aveva aperto le porte e messo a disposizione prese elettriche e connessione wireless. C’erano decine di persone. Sembravamo degli sfollati, ma la gente dava l’idea di divertirsi. Essere lì diventava occasione per fare conoscenze, chiacchierare, scambiarsi sensazioni. Quelli del Nord, quelli della parte in luce di Manhattan, sembravano non capire. Quando mi riavviai verso Sud, oltrepassando quella linea d’ombra che mi lasciava alle spalle le luci di Midtown per rigettarmi nella dark city, sentii un brivido. Davanti a me c’era una città diversa, sconosciuta. Ma c’era un che di rassicurante nel rientrare nel buio, nel reimmergermi in quell’universo in cui le ombre ci rendevano tutti uguali.

Chi restava a Midtown era fuggito dal buio, era partito, senza voltarsi, all’inseguimento di quella New York frenetica che tante volte ci raccontano ma che racconta solo uno dei lati di New York. Per cinque giorni il mio quartiere tornò ad essere quel Village dove la gente è parte di una comunità, dove si lavora e si costruisce insieme, dove il bene comune è un obiettivo non meno importante del bene individuale.

Non dimenticherò mai Alphabet City immersa nel buio. In quell’oscurità credo di aver scoperto la New York più vera, quella New York che ha fatto grande questa città. A tratti mi manca. E ogni tanto, quando mi fa arrabbiare, quando New York mi esaspera con le sue piccole crudeltà, chiudo gli occhi e mi riapproprio di quel buio, quello in cui riconosci una faccia amica, in cui distingui la luce tenue di un bar, quello in cui qualcuno ti tende la mano e tu la prendi, anche se non sai chi c’è oltre il buio.

 

*Dedicato a mia madre che cerca di non farmene accorgere troppo, ma non smetterà mai di preoccuparsi per me…

 

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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