Lo confesso: la festa del Columbus Day mi porta un po' di tristezza, quasi mi incupisce. Da un po' di tempo ormai. E devo confessare anche che la mia tristezza non scaturisce dal dolore che sentono i discendenti dei nativi americani, dal Nord al Centro al Sud America, che considerano l’anniversario dell’arrivo di Cristoforo Colombo alla stregua di una giornata di lutto, dato che per loro è l’inizio della fine per le civiltà dei loro avi, un Olocausto culturale che non si può dimenticare e che per loro non si dovrebbe celebrare. Rispetto questo dolore. Mi fa riflettere, ma non è quello che sento adesso. Non riesco a immedesimarmi in quel dolore. O meglio, non riesco a sentire Colombo come il responsabile di tutte quelle sofferenze. Certo la sua “scoperta” dell’America ne diventa il simbolo, ma non si può dare tutta la colpa all’esploratore di quello che avvenne dopo.
Comunque non è questo che non mi fa “vivere” la festività del Columbus Day come giornata dell'orgoglio italiano in America.
C'è che mentre sulla Quinta sfilava la cosidetta “italianità” con la diretta tv e contorno di danze e mandolini, mi tornava ovvia la constatazione di come l’italiano, la lingua che anche nelle sue espressioni dialettali dovrebbe comunque testimoniare la cultura italiana in America, sia ormai del tutto assente dalla festa. Almeno anni fa, erano rimasti quegli italiani d'America che parlavano un italiano antico, diciamo condito da frasi dialettali delle regioni di provenienza, ma culturalmente vivo e vero.
Oggi chi parla italiano? O un suo dialetto? Quanti sono i “dignitari” che discettano di italianità senza poter mettere insiema una frase in italiano? Ma senza la sua lingua una cultura può essere tramandata alle giovani generazioni? Lo chiedo agli esperti in materia. Anche se sulla Quinta oggi si parlava poco in italiano, magari nelle case degli italiani d'America l'utilizzo della lingua non diminuisce? Ecco, magari una vostra risposta allegerirà questa tristezza.