Quante volte ci sentiamo dire di restare coi piedi per terra, di non lasciarci prendere dall’immaginazione, di smettere di sognare. Sembra che i sogni siano solo destinati ai più piccoli, quasi un retaggio della nostra infanzia di cui dobbiamo necessariamente liberarci per entrare nell’età adulta.
A qualcuno, invece, piaceva sognare, e non ne faceva mistero.
Qualche giorno fa abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario di un discorso, in parte improvvisato, pronunciato da un reverendo nero americano, le cui parole erano destinate a restare scolpite nella storia. Il suo era un sogno per un Paese più giusto, più solidale, dove uomini e donne potessero essere giudicate attraverso il loro carattere e la loro personalità, e non per i loro tratti somatici. A cent’anni dalla proclamazione di emancipazione di Abramo Lincoln, le parole accorate del reverendo King ricordavano a tutti che quei propositi di uguaglianza fra i cittadini non si erano ancora realizzati: nonostante ciò, egli teneva accesa la fiamma del sogno, alimentandola con le proprie speranze e il proprio coraggio.
Che cosa è successo cinquant’anni dopo? Dobbiamo purtroppo costatare che, almeno nel nostro Paese, avremmo potuto fare di più. Noi, come cittadini, con le nostre iniziative, avremmo potuto sferzare ancora di più i nostri eletti a mantenere le loro promesse e a restare fedeli al loro mandato: avremmo potuto far sentire più forte la nostra voce, usando tutti i mezzi a nostra disposizione (chi la denuncia, chi l’ironia, chi l’impegno in prima persona) per tradurre in realtà i sogni dei nostri Padri costutienti. E i nostri “onorevoli”, molto di più potevano fare per essere all’altezza del loro compito e della nostra fiducia.
Secondo me, i nostri Martin Luther King Jr sono stati i relatori della nostra Costituzione; dei veri visionari, nel senso letterale del termine, persone cioè capaci di dar vita a una visione di una società ideale, e di redigere le linee-guida necessarie per cogliere questa visione e cercare di realizzarla.
A oltre sessant’anni di distanza, è davvero deprimente vedere lo spettacolo degli insulti a un ministro della Repubblica a causa del colore della propria pelle. Sono eventi censurabili, proprio come quando si vede un intero Governo e mezzo Parlamento violentare il diritto, oltre che il buon senso, pur di mantenere i propri incarichi. Dov’è andata a finire l’uguaglianza? Come si permettono fior fiori di “saggi” come Onida e Violante (di quest’ultimo conosciamo già le scorribande passate: quando si dice la recidività) asserire, peraltro senza perdere compostezza e quindi dimostrando una faccia di tolla non comune, autentici mostri giuridici, come la non retroattività di una legge il cui scopo è il ripulire il Parlamento dai condannati definitivi per reati gravi? Se davvero questa legge non fosse retroattiva, i suoi effetti si vedrebbero fra vent’anni. Ma questo, per loro, è un dettaglio irrilevante. Assistiamo impietriti allo spettacolo dei nostri rappresentanti che, prima, tra altisonanti proclami e solenni squilli di tromba, promulgano tronfi una legge per garantire il tanto agognato Parlamento pulito; e, subito dopo, sfidano la logica, il buon senso e la loro stessa decenza, cercando affannosamente di dimostrare l’inutilità, quando non la stessa incostituzionalità, della legge da loro stessi promulgata. Tutto questo per una semplice ragione: il loro vero padrone politico è in pericolo, e devono lottare tutti per salvarlo. E lo sgomento si inacuisce quando si scopre che tutto questo avviene, non solo con una benevola accettazione, ma con la complicità attiva, del presidente della Repubblica.
Vedete, cari Fassina, cari Violante, e cari Napolitano, noi che vi abbiamo votato avevamo un sogno: quello di vivere in un Paese dove la giustizia fosse presa sul serio, dove il principio di uguaglianza non fosse un mero flatus vocis, dove la certezza del diritto fosse un caposaldo fondamentale. Ce lo avete infranto. Ci avete svegliato con il vostro affaccendarvi a evitare che un frodatore fiscale, giudicato colpevole dopo tre gradi di giudizio, riceva la sanzione che si merita; con il vostro perdere tempo dietro ai problemi di un condannato definitivo, mentre il Paese versa in condizioni critiche; con il vostro negare la crisi, il vostro farci balenare una ripresa imminente che, a vedere i dati, non esiste; con la vostra sordità a ogni nostra idea, con la vostra scarsa considerazione della fiducia che abbiamo riposto in voi.
Il nostro sogno, quello che voi ci avete così fragorosamente spezzato, era peraltro facile da cogliere: bastava leggere la nostra Costituzione, da voi definita a parole “la più bella del mondo” e nei fatti bistrattata, ignorata, quasi malmenata e insultata, manomessa dal vostro attaccare proprio quell’articolo 138 che ne costituisce il lucchetto di sicurezza. Quello è il testo nel quale tutti noi ci ritroviamo. Come sarebbe facile, per voi, riconquistarci tutti, o quasi tutti, convincendoci un’altra volta a riporre in voi la nostra fiducia: sarebbe sufficiente che noi riconoscessimo, nei vostri atti, un minimo di attaccamento a quel testo e alle idee che ci sottostanno, che richiami almeno vagamente la forza e la gelosia con le quali lo conserviamo nei nostri cuori. Ma, questa volta, ci vorranno i fatti concreti. Delle vostre parole abbiamo già piene le orecchie: adesso basta.
Il mio auspicio è che questo partito, così infallibile nel farci vergognare della nostra appartenenza politica, possa davvero prendere coscienza di sé, esprimere al meglio tutte le sue potenzialità, e iniziare finalmente a farci sognare.
A questo punto, per rendere il nostro sogno davvero entusiasmante, diamo la parola a un grandissimo che ha saputo, più di molti altri, raccontare i nostri tempi con una disincantata, sferzante ironia, sempre efficace e scevra di ogni moralismo o buonismo melenso: Giorgio Gaber!
* Jacopo Coletto lavora a New York come analista finanziario in una delle maggiori società di gestione del risparmio americane. Ha conseguito una laurea in Discipline Economiche e Sociali presso l’università Bocconi e un master in Ingegneria Finanziaria presso l’Università di California a Berkeley. Frequenta il Circolo PD di New York