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August 31, 2013
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L’informazione che profana

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Lucia Riina

Lucia Riina

Time: 3 mins read

“Prendete la frase di un galantuomo, estrapolatela dal suo contesto, e ne farete un delinquente”. Così Voltaire. Sembra facile. Perché dava qui per scontato che “il contesto” fosse sempre univoco, che l’unico impegno dell’interprete fosse quello di ricondurre l’apparenza, (la frase che si presenta come una frase da delinquente) alla realtà (la frase che è invece una frase da galantuomo).

Ma c’è un problema: che Sciascia coglie alla sua geniale maniera. E lo fa intitolando il suo più urticante romanzo proprio “Il Contesto”, e dimostrando che esso contesto è la cosa meno univoca e fissa che ci sia. Più voltairriano di Voltaire.

Ora “prendiamo” le recenti dichiarazioni di Lucia Riina, la quale ha detto di essere “dispiaciuta” per le vittime della mafia, ma di rimanere “orgogliosa” del cognome che porta, invocando, a sostegno della sua posizione, la categoria universale dell’ “essere figlia” e quella particolare dell’ “essere cattolica”.

Considerando solo le sue frasi, dando per implicito un contesto univoco, ci si sarebbe potuti interrogare sull’opportunità di una rivendicazione così lampante. Ma le reazioni, a cominciare da quella della “Associazione parenti delle vittime di Via dei Georofili”, hanno lamentato molto più che una mera inopportunità. Solo che hanno sbagliato bersaglio o, quanto meno, hanno mancato quello principale, dannando le frasi ed ignorando viceversa il contesto, dato per irrilevante, perché ritenuto univoco.

E quale sarebbe qui il contesto, quale la sua univocità? Quello di una pubblica opinione che, tramite il mezzobusto di un telegiornale, in pochi meccanici istanti, con poche inautentiche parole, rivolge domande alla figlia del più noto criminale vivente nel mondo occidentale. Contesto legittimo, si dice. E sarebbe proprio la sua implicita legittimità il carattere univoco dato per presupposto. Cosicché l’unico tema di cui occuparsi sarebbero le frasi pronunciate. Ma è proprio cosi?

Ne ho tratto l’impressione che, ancora una volta, si sia trattato di un “abuso di informazione”; e che la legittimità-univocità di questo contesto fosse tutt’altro che pacifica.

Posta la domanda, che altro avrebbe potuto dire Lucia Riina? Certo, avrebbe potuto dire che rinnegava la sua famiglia, che la malediceva e che avrebbe preferito non essere nata, piuttosto che essere nata com’è nata. Ma sarebbe stata una risposta più morale di quella che ha dato? Una bazzecola, come sembrava desse per scontato l’impudente compunzione che le stava di fronte? Oppure quella compunzione, quel contesto, il suo carattere ritenuto univoco, la sua legittimità, una legittimità che permetterebbe ad uno studio televisivo di ridurre ogni cosa all’inessenziale, rendendo grottesco persino il tragico, non sono poi così sicuri?

L’autentica indecenza è consistita nell’ideare questo servizio. Nel macchiare e nell’oltraggiare, simultaneamente, quanto di più prezioso e fondativo abbia saputo istituire l’umanità in tremila anni di cammino: la memoria collettiva, che trascende l’angustia individuale quando rimanda ad un sentimento e ad un’idea accomunati nell’olocausto; e la pudicizia del foro interno: quel deposito gracile ed insieme prezioso a cui ciascuno affida ciò che più lo definisce e lo nutre, e di cui l’intimità familiare è cospicua e complessa sintesi.

L’una e l’altra, memoria collettiva e pudicizia del foro interno, sono invece state costrette ad immiserirsi nella volgarità semplificatrice di un confronto sporco: dove l’autentico riconoscimento del martirio si connetteva malignamente ad un improbabile contegno rinnegante, e l’intimità degli affetti si poteva proteggere concedendo solo una menzione formale e distratta ad un dolore corale. Unico vero scopo: inscenare clamore a buon mercato.

Ma, soprattutto, quella legittimità ipocrita, quel contesto equivoco, hanno fatto strame della condizione più alta dell’essere uomini: il conflitto. Fra stati d’animo, condizioni, aspirazioni, interessi, spirito, materia. Il conflitto, solo a coglierne l’esistenza, l’inevitabile natura tragica, espone al tormento, ma pure innalza alla sapienza di chi intende ragioni antagoniste, pur non sapendo risolversi.  Il conflitto ci innalza alla umana e grandiosa difficoltà di chi barcolla nel dubbio, nell’inquietudine di una scelta talvolta incommensurabile e, per questo, invoca l’aiuto: di Dio, della Ragione, della Follia Catartica.

In quell’intervista televisiva, con oscena normalità, con la consueta protervia bulimica di un’informazione “che non conosce limiti”, si è ritualmente uccisa, per l’ennesima volta, la grandezza dell’uomo. Non è stato un servizio: è stata una profanazione. Compiuta con la gentile collaborazione di tutti i presenti in studio. Di tutti.

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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