“Noi russi siamo normali, i ragazzi con le donne e le ragazze con gli uomini. Rispettate le nostre leggi”. Yelena Isimbayeva, campionessa di salto con l'asta la mette giù facile. E così in effetti sarebbe, se si potesse leggere la frase senza condizionamenti, senza l'assillo del “magnetismo di schieramento”, per cui le parole non valgono mai per se', ma per le loro ricadute “oggettive”, ridotte a tessera di un mosaico in perenne attesa di una mano saggia e sapiente che le collochi al “loro posto" o che ne sancisca la loro definitiva superfluità, il loro irrimediabile “inadattamento”.
Proviamo a leggere questa frase.
“Noi russi”. E avrebbe potuto essere, questo incipit, anche “Noi francesi”, “Noi tedeschi”, “Noi italiani”, “Noi americani”, “Noi congolesi”, “Noi turchi”, o “Noi cinesi”, naturalmente. E' il modo più naturale, più immediato di esprimere un'identità, un'appartenenza fondativa, di offrirsi con sincerità e limpidezza all'altrui conoscenza, all'altrui persona. Si apre bocca e subito un suono, un timbro si sprigiona a riscuotere un sedimento, più o meno stratificato, di concetti, di mezzi concetti, di immagini e di impressioni, sia pure fugaci, sia pure comuni e semplificate, che danno nerbo e sangue all'idea di Russia, di Francia, di Germania, di Italia, e così via. E' accaduto a ciascuno di noi, almeno una volta nella vita. Senonchè, come è noto, oggi non si può.Per lo meno, non si può senza essere lapidati da una schiera feroce e impettita di frasi fatte che, tuttavia, riuscendo a rimanere sempre compatta e irremovibile, come un gregge di pecore, a dispetto di salti logici, rozze manipolazioni e ogni sorta di imprecisioni, si è fatta negli ultimi decenni, diciamo circa quattro, luogo comune; quanto a dire, verità acquisita, ormai pacifica, su cui si è steso il velo rassicurante dell'ovvietà. E allora, se uno dice “Noi russi”, state tranquilli che le “Sentinelle Del Giusto”, saranno lì pronte a segnalare il “nazionalismo retrivo”, il “rigurgito antistorico”, il “ritorno del fascismo”.
“Siamo normali”. Fa quasi tenerezza, nel suo candore, nella sua innocente pretesa di guardare ad un punto fisso, quest'idea quasi fiabesca di normalità, che a partire da una “proprietà empirica”, tanto insopprimibilmente evidente, a partire da quelle curiose formazioni carnose e misteriosamente capaci di evocazione, di sgomento, e simultaneamente di ribrezzo e di attrazione, pare voglia acquietarsi a considerarne la sublime semplicità, la familiare capacità esplicativa e ordinatrice. Che ogni norma sia una convenzione è una goffa ovvietà. Ma “quella” norma, quella sua sfacciata evidenza, quella sua pulizia dicotomica, nascono dalla nostra materia e dalla sua ineguagliabile sublimità riproduttiva, che tale rimane anche se, nei singoli casi, giace inespressa e latente.
Semmai andrebbe precisato che altrettanto convenzionali sono le tutte le altre idee di normalità, compresa l'idea che la “normalità riproduttiva” non esista e che, invece solo la normalità sessuale sia tale: dove l'accento è posto sull'effetto piuttosto che sulla causa, sull'atto più che sulla qualità; dove è la sessualità, intesa come esplicazione sociale e personalistica dell'attributo primigenio, del sesso, a porsi come norma. Nulla di male. A patto di precisare che la dimensione sociale e personale implicano a maggior ragione una limitatezza storica, un carattere culturalmente contigente, un essere convenzione.
Ma se, cara Isimbayeva, da quell'idea di “normalità” (magari ingenua, magari ignara delle sue potenziali involuzioni e manipolazioni culturali, ma precisa e semplice), lei passa ad affermare che, conseguentemente, “i ragazzi con le donne, e le ragazze con gli uomini”, allora non le resta che il suicidio, non può che affrettarsi a sgombare il campo dalla sua primitiva presenza, così oscuramente cosacca, così lucidamente provocatoria. Perchè le “Sentinelle Del Giusto” hanno già stabilito che non esiste alcuna normalità, che ogni normalità è violenza, sopraffazione, indiscusso viatico per i lager. Come se, implicito in ogni concetto, ci fosse necessariamente la forca per il suo contrario. E la forca non fosse invece opera di interpreti, di pensatori, variamente accreditati, variamente impostori.
L'impressione è invece che la forca sia per lei, sfacciata e ingenua Isimbayeva. L'impressione è che sia la “nuova normalità” ad implicare ed imporre la forca per il suo contrario. Grazie all'opera di nuovi impostori; e, data che “se non pensi gay non sei nessuno” persino senza (è appena il caso di rilevare che “pensare gay”, essendo una moda, un barboncino da salotto, non comporta alcun reale rispetto per la persona omosessuale o bisessuale; come, per converso, una riflessione critica, non solo è già oltre ogni questione di “alterità”, ma, in quanto critica e non isterica, è compresa di tutto il carico di intensa umanità, talvolta tragico, che l'identità sessuale e le sue incomprensioni agita e nutre).
Chiedere poi: “Rispettate le nostre leggi”, (una legge, si badi, che vieta la “diffusione, promozione e pubblicità dell' omosessualità”) è pura faccia tosta. Ma come si permette lei, così reazionaria, così intollerante, così grettamente e dozzinalmente naturistica, come si permette questa ignorante starlette di invocare il rispetto della Legge, consueto e pacifico appannaggio del Pensiero Evoluto, della Civiltà, della Cultura? Sarà bene, perché sia monito e siano scoraggiati i cattivi esempi, che qualcuno proponga di revocare nonchè la sua abusiva identità di donna, anche quella di persona civile e, già che ci siamo, quella di atleta, con tutto il suo immeritato medagliere.
Antonio Gramsci (nella foto sopra) distingueva fra “Libero pensiero” e “Pensiero libero”: l'uno, portato dell'ideologia liberal-borghese e, perciò, in realtà, libero solo di muoversi entro i confini assegnatigli dal sistema di produzione; l'altro, il “Pensiero libero”, invece, veramente libero perché deliberatamente incurante di limiti e di presupposti ritenuti inderogabili: un pensiero che non teme di essere sconveniente, che non teme scomuniche, che non teme tendenze asseritamente colte, sicuramente dominanti. Anche fuori del contesto storico-politico in cui fu elaborata, questa distinzione mantiene intatto il suo valore.
La frase di Yelena Isimbayeva è “Pensiero libero”. Perciò va represso e maledetto.