“Il fatto non costituisce reato”. Così è stato assolto ieri a Palermo il generale Mario Mori dall’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra per la mancata cattura, nel 1995, del Boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Non è stato assolto con la formula “perchè il fatto non sussiste,” ma perché non “costituisce reato”.
Vedremo quando arriveranno le motivazioni della sentenza per capire quello che, forse, abbiamo già capito.
Ma perché, qualcuno si sorprende per questa assoluzione di chi veniva accusato di non aver voluto prendere Bernardo Provenzano? Ma cosa vi aspettavate? I giudici hanno fatto quello che era scontato. Un “servitore” dello Stato, un militare, un ufficiale dei carabinieri, che appunto prende ordini dallo Stato, è un esecutore. Perchè dovrebbe essere condannato? Sarebbe stata un’ingiustizia condannare solo Mori.
Ma cosa si pretendeva. Può condannare lo Stato italiano se stesso? Darsi oltre 150 anni di galera, tanti quanti sono gli anni in cui iniziò la “trattativa” (ogni tanto interrotta e poi ripresa) con la mafia?
Nel bellissimo “Salvatore Giuliano”, film “verista” di Francesco Rosi girato dieci anni dopo la morte del bandito, avvenuta nel 1950, opera meritatamente premiata nel 1962 a Berlino ma che all’uscita in Italia fu quasi nascosta distribuendola in pochissime sale, si vedono ufficiali dei carabinieri e “servitori” vari dello Stato, “trattare” con la mafia per prendere il “bandito” di Montelepre. Siamo alla fine degli anni Quaranta, alla nascita della Repubblica. Ad un certo punto un ufficiale dei carabinieri fa capire al boss mafioso che se non consegnano Turiddu, lo Stato se la prenderà con la mafia fino a distruggerla… E così alla fine Giuliano verrà tradito e ammazzato. Lo Stato vince. Ma, come spesso accade dall'Unità d'Italia, la mafia vince pure!
Come dite? Quello di Rosi era solo un film? Già, cinematografo lo chiamano ancora in Sicilia, fantasia, sogni…
Totò Riina e Bernardo Provenzano sono stati due magnifici latitanti, lasciati indisturbati per decenni. Sono sempre rimasti in Sicilia, al massimo uscivano per farsi curare qualche acciacco in cliniche specializzate all’estero. Quando presero Totò ‘curtu, ma che combinazione, la sua villa non fu perquisita per giorni, giusto il tempo per permettere che i suoi compari di mafia facessero sparire quello che sarebbe stato molto sconveniente per lo Stato trovare. Dopo quella “strana cattura”, Provenzano rimase indisturbato a comandare per quasi altri quindici anni.
La Sicilia è un’isola ma chissà perchè è difficilissimo trovare i latitanti. Soprattutto quando comandano. Matteo Messina Denaro, colui scelto per prendere il posto di Provenzano dopo la cattura del boss malato, è il figlio di un mafioso di Castelvetrano, il paese dove fu ammazzato Giuliano dopo una ennesima “trattativa” tra mafia e Stato. Si chiude il cerchio. Matteo Messina Denaro resta, come i boss prima di lui, latitante. Prenderlo ora sarebbe ancora sconveniente? E per chi? Per uno, nessuno, centomila. Appunto, lo Stato.
Una volta in Italia, c’erano scritte sopra gli edifici pubblici che intimavano: “Il Duce ha sempre ragione”. Adesso uno ad averla da solo la ragione non c’è più, ma è rimasta la ragione di Stato, che è un modo piu garbato per dire che lo Stato ha sempre ragione. Anche quando fa torto alla memoria di chi è morto per difendere la legalità, un valore ben altro rispetto alla ragione di Stato. Come accadde per il magistrato Paolo Borsellino, massacrato in Via D’Amelio a Palermo con tutta la sua scorta ventuno anni fa da quella stessa Cosa Nostra che, con la sua ragione di mafia, non aveva paura dello Stato, o meglio, di quello Stato. E aveva ragione.
Condannare il generale Mori? Giusto così, "il fatto non costituisce reato”. Già, come si fa a condannare lo Stato. Chi lo sbatterebbe in galera, la mafia?