L’Italia è un paese razzista? O meglio, gli italiani sono razzisti? Mi si permetta questo incipit da giornalismo sensazionalista in seguito alle vicende che hanno visto protagonisti il Ministro italiano per l’integrazione Kyenge e il Vice-presidente del Senato Calderoli. Non vogliamo soffermarci, in questo caso, sulle scemenze strumentali o meno ai fini della propaganda politica del leghista e neanche sul tema assai grave che una carica istituzionale possa fare certe affermazioni, quanto affrontare la questione con uno sguardo, sociologicamente parlando, più ampio. Il tema della discriminazione razziale, culturale, antropologica deve essere affrontato relativamente al contesto politico-culturale uscito da Westfalia (1648), cioè della costituzione dello Stato-nazione come ordinamento capace di determinare un identità collettiva che, in seguito alla Rivoluzione Francese, darà luogo a diritti e doveri di cittadinanza.
Il paradigma dello Stato-nazione si basa sulla costituzione di confini territoriali, determinati via via da guerre e trattati, che separano il noi dal loro, l’interno dall’esterno, gli amici dai nemici, il chi siamo dal chi non siamo. Coloro che stanno al di là sono potenziali disturbatori dell’ordine stabilito all’interno degli spazi di libertà identitaria, a meno che non siano portatori della loro forza lavoro, se ce n’è bisogno, magari a costi vantaggiosi, ma con l’obbligo sociale di assimilarsi nel paese di arrivo. D’altra parte le politiche dell’integrazione sono molto più difficili da scorgere rispetto a quelle dell’assimilazione.
Ma oggi la sovranità dello Stato-nazione è percorsa da spinte glocali che determinano la formazione di attori sovranazionali e subnazionali, in corrispondenza di identità culturali collettive che non riflettono l’ordine, appunto, westfaliano; ma danno luogo a metissage culturali dove le barriere diventano fluide e indistinguibili. Tuttavia, quella che sembra un’evidenza diffusa nasconde paradossi che confondono le idee: ne scrive chiaramente Wendy Brown, filosofa-politologa della Berkley University of California, in un interessantissimo testo, Stati murati, sovranità in declino.
L’autrice sviluppa, argomentandola da diversi punti di vista, la riflessione che paradossalmente, in tempi di globalizzazione, si progettano e alzano muri che dividono Stati sovrani. Ne sono esempi, oltre a quello più celebre che separa Israele dalla Palestina, quello che circonda l'enclave di Melilla in Marocco, quello al confine tra Stati Uniti e Messico, tra India e Bangladesh, India e Pakistan, tra Arabia Saudita e Yemen, per non parlare di quello in costruzione tra Arabia Saudita e Iraq con un progetto che prevede recinzione metallica, filo spinato, sorveglianza a sensori ultravioletti esterni e interrati, software per riconoscimento facciale, torrette e piazzole di elicotteri, ecc… I muri altro non sono che “una reazione – scrive la Brown – a relazioni transnazionali, più che internazionali, e una risposta a forze persistenti ma spesso informali o occulte, più ad azioni militari… Gli obiettivi dei muri sono attori transnazionali non statuali – individui, gruppi, movimenti, organizzazioni e industrie… Si presentano dunque come segni di un mondo post-westfaliano”. È quindi un mondo post, ma tuttora ancorato ad un ordine passato difficile da scalfire: gli Stati sono ancora forti e non esistono modelli chiari di convivenza globale di natura post-nazionale.
Ma dove ci porta tutto questo discorso? Potrei semplificare dicendo che, in seguito al nostro ragionamento, le domande iniziali assumono nuovo senso. Probabilmente diventano anche insignificanti. Non si tratta di sapere se gli italiani o l’Italia sono razzisti o meno ma quanto il modello politico culturale nel quale si è immersi determina comportamenti discriminatori: e quello dello Stato nazione può farlo fortemente seppur dotato dei contrappesi dei principi democratici. La questione, allora, è: quale paradigma determina le identità collettive? Gli Stati-nazioni con la loro necessità di ordine tra dentro o fuori? O i fluidi processi culturali che creano ibridazione, difficilmente collocabili in istituzioni chiare? Se propendiamo per questa seconda ipotesi allora l’italicità diventa una grande risorsa, oltre che un laboratorio di analisi, per comprendere i processi di sincretismo culturale, non nell’ottica aprioristica noi vs loro, ma di naturale ed inevitabile incontro della diversità. L’italicità è anche uno sguardo aperto sul mondo, un cuneo tra le diversità: ce lo insegnano i milioni di italiani emigranti, ma ce lo insegnano anche i nuovi immigrati arrivati in Italia, quelli ben integrati di cui poco si parla perché, è normale, non fanno notizia. È per questo che ritengo molto più italica il ministro Kyenge che un povero aizzatore di impauriti leghisti.