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July 5, 2013
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Parola di Italiano a New York

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Time: 5 mins read

A New York l'estate, oltre agli scoiattoli e ai concerti nei parchi, porta con sé un'altra meraviglia: gli italiani in vacanza. In questi giorni per le strade della città se ne incontrano ovunque, eccitati dalla metropoli, estasiati dai grattacieli, a volte disorientati, di certo sempre indaffarati a commentare e fare confronti. A me viene inevitabile starli ad ascoltare. Quando sento parlare italiano, nella metro, per strada o in un bar, non posso fare a meno di tendere l'orecchio e rubare qualche pezzo di conversazione. La mia attenzione è immediatamente catturata dalla familiarità della lingua e dei discorsi. E già, ho brutte notizie per voi: seppure noi italiani viviamo nella convinzione della nostra assoluta unicità, quando sbarchiamo per la prima volta a New York siamo tutti maledettamente uguali.

Sono una serie di piccole ossessioni che accompagnano il popolo italico nel suo approccio alla cultura americana e che forniscono inesauribili argomenti di conversazione per l'intera durata della vacanza, nonché per svariati mesi a seguire (per chi ci legge dall'Italia, vi avverto, forse fareste meglio a non andare avanti con la lettura, perché quando i vostri amici torneranno dalle vacanze a New York dovrete risentirvi tutta la tiritera. E non voglio rovinarvi la sorpresa).

Il tormentone dei primi giorni è il jet leg. Se gli americani, con la loro ruspante noncuranza, quando vengono in Europa sembrano non accorgersi nemmeno della differenza di fuso orario, per noi italici quelle sei ore indietro sono soggetto di discorsi, discettazioni e teorie. Qualcuno ha sentito dire al TG che il modo migliore per non risentirne è non mangiare per due giorni. Un altro giura che se la prima sera vai a letto entro le 8, il giorno dopo ti svegli fresco come una rosa. Un altro ancora sostiene invece che non si debba dormire affatto per le prime 24 ore. Poi c'è quello per cui è peggio all'andata e quello che “L'andata non mi fa niente, ma il ritorno!”: due scuole di pensiero incompatibili quanto Guelfi e Ghibellini (la solita tifoseria tutta italiana).

L'altro grande argomento di conversazione arriva immancabile alla prima volta che il gruppo di italiani si siede in un bar o in un ristorante e il solerte cameriere di turno li accoglie con un bel bicchierone d'acqua colmo di ghiaccio. L'italiano ne è quasi oltraggiato: “Chi gli ha chiesto tutto questo ghiaccio? Ma come si fa a bere 'sta roba? Ma questo è da congestione!” sono le esclamazioni tipiche che seguono l'arrivo del bicchiere e precedono vani tentativi di farsi portare dell'acqua con una quantità di ghiaccio che non sia l'equivalente della calotta polare in cubetti. Generalmente la scenetta si conclude con l'italiano che, sbuffante e armato di forchetta, cerca di togliere il ghiaccio dal bicchiere per poi gettarlo nel più vicino vaso di piante.

Segue altra dolorosa constatazione: il freddo. L'italiano inizia impaziente a guardarsi intorno per individuare la fonte del vento gelido che sta rischiando di compromettere la sua vacanza. Finché si accorge che, proprio dietro la sua sudata schiena, c'è un condizionatore in grado di raffreddare il deserto del Sahara. Dopo essere riusciti a farsi cambiare di tavolo, sconfortati, i nostri connazionali realizzano che, oltre ad esserci condizionatori in ogni angolo, il soffitto è pieno di ventilatori che grantiscono che, anche se non siete seduti esattamente di fronte alla letale macchina del freddo, possiate ricevere salutari ventate di aria gelida direttamente sulla nuca. Per gli americani è questione di civiltà, un diritto inalienabile che dovrebbe essere incluso nella carta universale dei diritti dell'uomo. Ma per l'italiano, sempre oppresso da dolori cervicali e simili, è una violenza senza paragoni. Il resto del pranzo sarà quindi condito da una sfilza di “Ma questi sono pazzi”, “Ma come fanno?”, “Non muoiono di freddo?”, “Non gli si blocca la digestione?” e affini. Il meglio di queste esclamazioni lo si sente all'ingresso sulla metropolitana, quando, venendo dai tunnel a temperatura da altoforno, ci si ritrova in un igloo.

La lamentazione per l'aria condizionata ha un equivalente invernale che è il termosifone newyorchese, noto strumento di tortura fischiettante che ha la capacità di produrre temperature da essiccazione. Sempre d'inverno, le conversazioni degli italiani si arricchiscono poi delle infinite esternazioni di stupore alla vista delle immancabili ragazze dal nudo piede calzato in sandaletti estivi e degli uomini in maniche corte nel bel mezzo di una bufera di neve. “Ma non sentono freddo? Bah! Sti americani!”.

Noi italiani siamo tanto affascinati e incuriositi da questa indifferenza ai fenomeni atmosferici e alle temperature, da farne una questione filosofica. Ci avventuriamo in spiegazioni e ipotesi sul perché gli americani non soffrano il freddo. Farcene una ragione è difficile, ma siamo più che propensi a elaborarci sopra. 

La socialità dei gruppi in vacanza in America si regge, però, soprattutto su un argomento: il cibo. Inevitabile, per chi arriva a New York per la prima volta, farsi trarre in inganno da salse “italiane” e condimenti “mediterranei”. Inutile descrivere la delusione e l'incredulità al ritrovarsi davanti intrugli dal sapore non identificabile. “Ma dove l'hanno mai vista una cosa del genere in Italia?”. Eppure l'Italiano a New York viene colto da sindrome di Pinocchio nel paese dei balocchi e generalmente se ne torna a casa con almeno un paio di chili di troppo. Ma per tutta la vacanza non ha fatto altro che lamentarsi del cibo, mentre, per non rischiare con piatti troppo esotici, si ingozzava di patatine e hamburger.

Infine c'è l'eterno argomento lingua. A ogni tavolo di italiani c'è sempre qualcuno che esordisce dicendo: “Oh, ma sai che alla fine 'sto inglese mica è tanto difficile. E che sarà mai.. Io me la cavo, ci si fa capire”. Tempo cinque minuti, lo spavaldo italiota si ritrova ad annaspare cercando di spiegare alla cameriera che vorrebbe dell'insalata di pomodori condita con olio d'oliva.

Io sorrido. Siamo inconfondibili e, in questo sì, un popolo unico. Mi viene in mente una barzelletta che mi raccontava mia nonna. L'orsognese (Orsogna è un piccolo paese in Abruzzo, patria di tanti emigranti) che tornava dall'America, ai paesani che gli chiedevano “ma allora com'è st'America?” rispondeva: "Mah, è un posto strano. C'hanno tutte le cose al contrario. Pensa che c'hanno ste strade larghe, ma larghe e quelli le chiamano strit (strette). I cavalli? Li chiamano ors' (orsi). Ma la cosa più strana è che alle donne le chiamano omn (uomini)”.

Sono sempre gli altri, quelli strani.

 

 

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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