La memoria del politologo internazionalista Kennet Waltz, scomparso in maggio, resterà legata soprattutto a due suoi libri: Man, the State and War del 1959 e Theory of International Politics del 1979. Entrambi furono partoriti all’interno della guerra fredda, anche se il secondo, vero manuale da studi universitari, si sforzò di spingere teoria e pratica delle relazioni internazionali fuori dalle logiche del duopolio nucleare sovieto-americano. Waltz fu ritenuto, da un po’ tutti i colleghi, esponente del cosiddetto neorealismo, ma con quella definizione si ridusse di fatto l’originalità di un contributo scientifico che spaziava sin nella filosofia e nella ideologia, e che mai si ritrasse di fronte a polemiche e anticonformismi, tanto da accumulare un vasto numero di invidie e critiche.
L’ultima unghiata la diede, quasi novantenne, un anno fa di questi tempi, affermando che l’Iran non andava fermato nella corsa al nucleare, perché il suo possesso dell’”ordigno finedimondo” (su molti blog corse il paragone tra Waltz e l’indimenticabile Dr. Strangelove di Peter Sellers) avrebbe costituito il fattore di stabilizzazione definitiva nel Golfo e più in generale nel quadro mediorientale: “a nuclear-armed Iran would probably be the… one most likely to restore stability to the Midlle East”. L’affermazione gettava non un sasso ma un macigno, nel grande stagno dell’allineamento filoisraeliano, prestandosi ad essere facilmente contraddetta dai timori destati, non solo a Gerusalemme, dalla teocrazia sciita di Teheran. Il giudizio di Waltz era del tutto coerente con la posizione da sempre mantenuta sull’equilibrio delle forze, ma è bizzarro che sfuggisse alla differenze che corrono tra il sistema bipolare e l’attuale assetto dei rapporti internazionali. La più rilevante, in quanto al nucleare, è che far crescere il numero degli attori accresce il rischio (more is worse) e che le responsabilità globali gestite dalle due superpotenze non sono comparabili con quelle regionali o locali delle attuali potenze. Inoltre, i fondamentalismi religiosi hanno in sé un tasso di rischiosità che in genere non mantengono i regimi laici.
Waltz tende a ragionare sugli stati non tanto o non solo per i regimi politici dei quali si dotano (le forme di governo, i valori e le credenze cui si ispirano, etc.) quanto per la loro natura intrinseca che li spinge ad allargare lo spazio di potere e dominio, a meno che non ne siano dissuasi da stati in disponibilità di altrettanta forza. In questo scenario, l’equilibrio, a livello regionale come a livello globale, diventa l’elemento prioritario da perseguire rispetto ad ogni altro. Dimenticando che lo stato è soltanto una “astrazione giuridica”, e che nei rapporti di sicurezza contano anche fattori “reali” come l’economia, la cultura, le religioni, la condivisione dei destini comuni, Waltz svaluta fattori costitutivi delle della sicurezza, come il regionalismo cooperativo e la diplomazia.
Ossessionato dai benefici che presume fornisca l’equilibrio nucleare, Waltz nel guardare all’Iran non apparve equilibrato verso gli altri fattori che potrebbero contribuire alla sicurezza mediorientale. In questo modo ripete l’errore compiuto dall’establishment intellettuale che si confrontò con l’epoca bipolare: ignorare il dinamismo interno alle società, negli aspetti di lotta socio-politica, di concorrenza nel mercato, di circolazione delle idee, di formazione delle alleanze interne ed estere. Curioso che quando si sia trovato a guardare l’Europa, Waltz abbia invece avuto la capacità di cogliere la necessità di questi fattori, criticando l’assenza di governo politico dell’Ue, evidenziando la senilità delle élite e delle forme politiche del vecchio continente.
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