La giornata al “Campo A.N.P.A.S. Raffaele & Matilde” di Mirandola (Modena) inizia molto presto. Alle 6 la sveglia suona già per i primi volontari a cui spetta il compito di preparare la colazione per tutti. Mezz’ora dopo anche gli altri iniziano, mano a mano, ad alzarsi. Uscendo dalla tenda per recarsi al container del bagno (per una doccia o anche solo una lavata di viso) si può ammirare l’albeggiare: il sole è un fuoco rosso che inizia la sua corsa alla conquista del cielo. E’ questo il modo con cui la natura, nuda e pura, dà il buongiorno ai volontari, ed è difficile immaginare un risveglio più romantico.
Dopo la colazione si inizia subito il lavoro in cucina: bisogna preparare tra i 250 e i 300 pasti. Il Campo Raffaele & Matilde infatti sorge accanto al palazzetto sportivo di Mirandola, oggi inagibile, ed offre soltanto il servizio mensa ai volontari e alla popolazione locale che, non riuscendo ancora a far rientro nelle proprie case, si arrangia come può, piantando magari una tenda in giardino. La mattinata per i volontari vola così, si prepara il condimento per la pasta (in genere un sugo bianco, uno con il ragù, ed una terza opzione per i musulmani che non mangiano carne di maiale), si decidono almeno due tipi di secondo, si seleziona e si lava la frutta e infine, dulcis in fundo, si preparano i contorni: si spiazza dai pomodorini, da tagliare in due o quattro pezzi e in quantità abnormi, zucchine, melanzane o peperoni da grigliare, fagioli e piselli precotti da riscaldare. E ovviamente c’è da pulire l’insalata. Il momento più “divertente” della mattinata è sicuramente la “centrifuga”. Funziona così: prima si tagliano un bel po’ di piedi di insalata, verde o radicchio, quello che sia. E per un bel po’ di piedi intendo dieci, anche quindici cassette. Poi si versa tutto nel lavabo, che nel frattempo è stato riempito con acqua e un bicchierino di Amuchina, per disinfettare. Si procede quindi al primo risciacquo. Poi si rimettono tutti i pezzetti nelle cassette, si pulisce con dovizia il lavandino, e lo si riempie di nuovo con acqua pulita, questa volta per il secondo e ultimo risciacquo. Si riposiziona tutta l’insalata nelle cassette (operazione questa che richiede un tempo infinito, nonostante il colino di piccola e media grandezza) e poi, non resta che asciugarla, prima di riporla nella cella frigorifera. E’ per questa, ultima azione, che al campo di Mirandola si mette in azione la centrifuga manuale. Due persone prendono un lenzuolo bello resistente, allungandolo nelle due estremità. Una terza inizia il travaso del contenuto delle cassette di insalata, in media meno della metà, al centro del lenzuolo. Poi i due cominciano ad arrotolare il lenzuolo, entrambi nella stessa direzione e poi, una volta che si è materializzato al centro un piccolo fagotto, iniziano a far roteare il tutto in maniera velocissima, e ad ogni giro corrisponde una scarica di acqua i cui spruzzi raggiungono ogni dove. L’operazione va ripetuta per tutto il contenuto delle cassette. I volontari del campo provengono da tutte le zone dell’Emilia Romagna: Piacenza, Parma, Bologna. Si mischiano gli accenti ed il risultato è di un’eccezionale mix di dialetti, il cui contenuto rimane a me sconosciuto il più delle volte. Ho conosciuto ragazzi e signori che era la quinta, anche la sesta volta che venivano in “missione”. Altri a cui la possibilità era stata negata, come la Betta, ad esempio. Aveva chiesto al suo datore di lavoro il permesso per poter partire, ma non le era stato accordato. “Se non vai tu ci andrà qualcun altro, non temere”, era stata la risposta che aveva ricevuto, e tanta pace per il così decantato Articolo 9. Ma lei non ha gettato la spugna e così ha deciso di investire una settimana delle sue ferie per venire a vivere l’esperienza del campo, lasciando a casa suo marito. Poi c’è Francesca, da Parma, anni 22, sta per completare la triennale in Scienze Politiche, e già sa che non le servirà a nulla. Francesca serve la pasta, ed è così convincente che riesce a rimanere sempre senza piatti fondi, perché per la popolazione è difficile, quasi impossibile, resistere alla sua opera di convincimento: “E il ragù lo tiro giù!” è la sua frase più simpatica. E tralascio il vocabolario di parole e verbi nuovi che mi ha insegnato. Per non parlare di Chiara, un’autentica forza della natura, ogni parola che esce dalla sua bocca è una battuta a cui è impossibile non ridere. Passare un’ora con Chiara è più efficace di sedute e sedute di ludoterapia.
Poi ci sono Katia e Francesca, arrivate a metà settimana: anche loro sono due veri portenti. Katia ha mal di denti, ma si imbottisce di medicinali ed è sempre al mille per mille. Non so se il suo fegato sia altrettanto contento però. Per non parlare di Massimo, al quale sono stati affibbiati vari soprannomi, da Sandokan la Tigre della Malesia. In qualsiasi modo lo si voglia definire, Massimo è instancabile, e riesce a lavare teglie incrostate anche per tre ore consecutive. E ancora Mauro, Gianni, Diano, Bubu: vengono da Nonantola, si conoscono da una vita e tra i fornelli sono un team così affiatato da fare invidia. E poi c’è Gaspar, 27 anni, originario dell’Argentina. Una vita di fughe, privazioni e sofferenze lo caratterizza. Lascia l’America Latina appena ventenne, alla conquista dell’Europa. Spagna prima, Germania dopo, e infine l’Italia, Mirandola. Gaspar lavorava in una delle tante aziende del campo biomedico a cui il terremoto ha tagliato le gambe. Lo stabile ha resistito alla scossa, ma è stato dichiarato inagibile, produzione ferma. Gaspar è in cassa integrazione, e non sa cosa ne sarà di lui. E così intanto, ogni mattina, viene qui al campo A.N.P.A.S. e si mette a disposizione dei volontari. Aiuta in cucina, nel magazzino, durante la distribuzione pasti o, all’occorrenza, si improvvisa elettricista. Gaspar ha sposato perfettamente la mentalità del luogo ed incarna pienamente lo spirito emiliano: quello di rimboccarsi le maniche e rendersi utile. E’ un volontario senza divisa. Il clima che si respira al campo è abbastanza conviviale. La distribuzione pasti dura due ore: dalle 12 alle 14 per il pranzo, 19-21 la cena Le persone non fanno storie e, adagio adagio, si mettono in fila. Passano i giorni ed i volti si ripetono. Io sono l’addetta ai contorni, non salto un pasto e, con il passare del tempo, acquisto una discreta manualità, malgrado la temperatura rovente che, soprattutto dietro ai bollitori dell’acqua, si avvicina spesso ai 50 gradi. A volte si manifesta qualche screzio, il nervosismo ha la meglio sulla razionalità e si verificano dei tafferugli, ma è inevitabile del resto. Sono passati quattro mesi dal sisma, eppure nei dodici Comuni terremotati dell’Emilia ci sono ancora tendopoli aperte per 3.061 sfollati. Altri 88 sono ospiti in un residence e 1.467 vivono in alberghi. Le persone che aspettano il contributo per la sistemazione autonoma programmato dalla Protezione civile sono 39.327. Di fronte al nostro campo c’è la tendopoli gestita dagli Alpini del Friuli Venezia Giulia, ospita quasi trecento persone. La maggior parte di nazionalità straniera: magrebini, bengalesi, pakistani. Una sera ci siamo intrattenuti con un alpino e, davanti a una coppetta di gelato confezionato alla vaniglia, abbiamo riflettuto sui problemi legati a un mix di promiscuità e multiculturalismo che, lo scorrere del tempo unito all’angoscia per la poca chiarezza dei provvedimenti da prendere, fa sfociare spesso in risse ed episodi di intolleranza. Gli italiani ospiti del campo si contano sulle dita di due mani, forse quattro. Ho avuto la fortuna di conoscerne uno, Giuseppe. Di origini napoletane, anche lui è un volontario di Protezione Civile. Giuseppe è insofferente, soffre la vita della tendopoli. Ha una moglie e due figlie. Non si trova bene con gli Alpini, “perché pensano di essere onnipotenti e di sapere tutto loro”, dice, e non si trova bene con i suoi vicini di tenda: “Sono tutti tunisini, fanno un baccano assurdo, soprattutto la notte”. Ogni mattina Giuseppe non va via prima di aver chiuso la sua tenda con un lucchetto: “Da buon napoletano”, aggiunge, mentre compie il consueto gesto di serrare il passaggio. Quasi che un lucchetto a chiudere una cerniera possa veramente salvaguardare una tenda che, in verità, può tranquillamente essere scalfita con un coltello. Una sera siamo usciti. L’orologio ha superato le 23 quando ci incamminiamo verso il centro di Mirandola, guidati da Gaspar che si offre di farci da Cicerone. Ci mostra quel che un tempo erano il municipio, la chiesa, la cattedrale, la casa della perpetua, la scuola. Lo chiamano “Turismo dell’orrore”. L’atmosfera è surreale, quasi spettrale. Dove non è arrivato il terremoto a squarciare il paesaggio, ci pensano i puntellamenti a ridisegnare tutto lo spazio circostante. Mirandola è un paese martorizzato, gli edifici sono sventrati e, su quelli rimasti in piedi, si possono riconoscere delle crepe a forma di croce di Sant’Andrea, le quali non lasciano presagire nulla di buono. A destra e sinistra sbarre che impediscono il passaggio, travi di legno a rafforzare porte e finestre e poi lui, il silenzio. E’ il vero collante che accomuna i disastri naturali. Ho sentito l’eco del silenzio in più contesti, nel corso degli ultimi anni, a causa del mio lavoro, eppure devo ammettere che continua a farmi paura. L’ho avvertito passeggiando per la zona rossa dell’Aquila, visitando Onna, Fossa, Villa Sant’Angelo e gli altri paesini abruzzesi piegati dal sisma del 6 aprile 2009. Ho percepito di nuovo quello stesso silenzio a Port au Prince, Haiti, tra le macerie del Palazzo Presidenziale, della Cattedrale e di tutti quegli edifici rasi al suolo il pomeriggio del 12 gennaio 2010.
Eppure c’è qualcosa di diverso nel “silenzio” emiliano: sono i ragazzi in bicicletta che, di tanto in tanto, in piena notte, scalfiscono la quiete, percorrendo ugualmente quelle strade, facendo slalom tra gli sbarramenti e sfidando i puntellamenti. E sono i cartelli che pullulano sulle transenne in piazza della Costituente, di fronte al municipio barcollante.
Appartengono ai commercianti e ai liberi professionisti del centro storico, che annunciano ai clienti il riavvio delle proprie attività, in altre sedi, spesso in container ubicati fuori il perimetro ottagonale del paese. Perché il terremoto non fa crediti, è vero, ma di debiti, gli emiliani, proprio non vogliono sentirne parlare. E per loro la ricostruzione parte da qui.