Oggi, sabato 27 maggio, ricorre il centenario dalla nascita di don Lorenzo Milani, figura di riferimento per la formazione personale e politica mia e di moltissime altre persone di generazioni diverse.
È per me un’occasione per riflettere sul ruolo di noi cattolici in politica e, più specificatamente, nel Partito Democratico, a maggior ragione successivamente alla fuoriuscita dal partito di alcuni suoi esponenti come Enrico Borghi. Prima di tutto non può sfuggire che questa domanda si rivolge solo ai cattolici che militano nel Pd, perché agli altri non si pongono questioni come la coerenza e la rilevanza. Noi cattolici dobbiamo essere sempre un po’ inquieti, tormentati e mai appagati. E dobbiamo vivere sempre quella tensione nell’unione di due appartenenze, quella a Dio e quella alla città: si tratta di un’impresa sempre più ardua soprattutto perché la Chiesa ha rinunciato da tempo all’educazione delle nuove generazioni al rapporto tra fede e politica.
In politica non basta offrire una testimonianza, ma ci si sta per cambiare le cose e – per farlo – serve essere maggioranza. Per essere maggioranza bisogna costruire una convivenza tra posizione diverse ma compatibili. Questo è possibile solo in un partito che sia contendibile, non leaderistico e dove sui temi delicati ed etici sia ammissibile libertà di coscienza (come anche ripreso dagli articoli 49 e 68 della Costituzione).
Dalle recenti elezioni amministrative sembra che il peso elettorale dei cattolici nel Pd sia ancora rilevante. Più volte, anche in Direzione Nazionale (si vedano gli interventi di Costa, Delrio, De Micheli, Cuperlo), si è posto rispetto, considerazione e attenzione a questa componente. In tempi segnati da transizioni complesse verso esiti inimmaginabili, la politica non può ignorare le nuove problematiche soggettive, come quelle dei diritti civili. Non ci si può certo limitare a rispondere “ma ci sono anche i diritti sociali” come spesso sento dire da amici cattolici. E’ necessario discutere nel merito degli uni e degli altri. Ma le questioni di giustizia distributiva, di quella intergenerazionale in particolare, non sembrano interessare prioritariamente il Pd. Il Pd non sembra essere parimenti vocale su salario minimo, la sicurezza, la sanità, la crisi demografica, una fiscalità equa: basta leggersi la dottrina sociale per aver modo di allungare, e di molto, questo elenco.
Perché allora rimanere nel Pd? Innanzitutto perché la discussione interna nel partito è appena avviata e l’esito ètutt’altro che scontato. Le battaglie politiche si devono fare in prima persona e dentro/con i grandi partiti popolari (una volta si sarebbero chiamati di massa). La testimonianza è sempre importante e va espressa ovunque ma non è sufficiente. Siamo in politica per disegnare un futuro, per scrivere la storia e – per farlo – servono perseveranza, mediazione, fatica, lavorare con altri e senza togliere lo sguardo dall’orizzonte a cui si vuole puntare. Con buona pace di chi ostenta rosari o vive di proclami, penso che stia nel Pd il tentativo di tradurre in pratica politica la rivoluzione del Vangelo, che non è un testo di parole stantie, di perbenismo di facciata, di prediche ad altri e poco praticate, ma è fatto di tentativi di riuscire a praticarle, di mani che non hanno paura di sporcarsi, di scelte nette a favore di tutti a partire dagli ultimi. In politica cerchiamo di essere credibili piuttosto che ostinatamente dichiararci credenti.
In questi tempi, terribili e intriganti, i cattolici (anche coloro che non si occupano di politica) non possono stare a guardare e accontentarsi di quello che la politica e i partiti offrono.