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Trump festeggia sei mesi di potere, ma l’ombra lunga di Epstein oscura la festa

Il presidente si proclama invincibile. Eppure tra processi, video e vecchie amicizie, il passato torna a bussare

Massimo JausbyMassimo Jaus
Trump celebra i suoi primi 6 mesi, abbiamo rilanciato Usa

Donald Trump (ph: ANSA)

Time: 5 mins read

Donald Trump celebra a suon di proclami i primi sei mesi del suo secondo mandato. “Abbiamo rilanciato l’America. Ora siamo il Paese più rispettato al mondo,” ha dichiarato con enfasi, tra applausi e bandiere. Si autoincensa come l’artefice della rinascita nazionale, elenca successi su immigrazione, dazi, Ucraina e tagli fiscali, e rilancia sondaggi trionfali: “90, 92, 95% del sostegno tra i repubblicani!”, trasformando questo pseudoconsenso in un’arma contro ogni critica.

Ma dietro la scenografia dell’uomo forte e idolatrato, si allunga l’ombra di un passato che non smette di bussare. Jeffrey Epstein, prima di tutto. Ma anche una lunga scia di cause civili e penali: la condanna per aver abusato sessualmente di E. Jean Carroll, le accuse di Stormy Daniels in tribunale, e quell’universo torbido di scandali a sfondo sessuale, alimentato dalle sue stesse affermazioni rese pubbliche nel programma Access Hollywood. Trump ha sempre bollato tutto come “bufale”, ma le vicende continuano a riaffiorare con puntualità imbarazzante.

In parte, almeno all’inizio sella sua prima presidenza, furono tenute sotto silenzio da Michael Cohen, l’ex avvocato personale, il “fixer”, l’uomo incaricato per anni di tappare buchi, comprare silenzi, gestire le crisi. Il regista invisibile degli insabbiamenti. Ma oggi Cohen è passato dall’altra parte della barricata, e dietro la retorica del presidente invincibile, resta molto fumo sui cui in tanti continuano a soffiare su una brace che non è mai stata spenta del tutto.

Il caso Epstein, che Trump continua a liquidare come “una montatura dei Democratici”, è tutt’altro che chiuso. E soprattutto, questa volta, non c’è più nessun fixer a scoprire che carte ha in mano chi lo accusa.

Per quasi quindici anni, Trump ed Epstein sono stati amici pubblici. Cene nell’Upper East Side, feste a Mar-a-Lago, voli sul jet privato del finanziere caduto in disgrazia. A raccontarlo non è una fonte anonima, ma lo stesso Trump: “Conosco Jeff da 15 anni. Un ragazzo fantastico… Gli piacciono le belle donne quanto a me, e molte sono giovani,” dichiarò nel 2002.

Vent’anni dopo, quelle parole tornano a perseguitarlo. A nulla valgono le smentite tardive, le dichiarazioni di distanza, la retorica anti-media. I documenti giudiziari parlano di almeno sette voli sul jet di Epstein. I video della NBC lo immortalano mentre ride con lui tra cheerleader e modelle. E ci sono testimoni, come George Houraney, che ricordano feste private con “sole donne e un solo uomo invitato: Epstein”.

Peggio ancora, c’è la testimonianza di Jill Harth, che accusò Trump di averla molestata proprio in una di quelle serate. Accuse poi ritirate, ma che oggi tornano a pesare in un contesto molto più tossico, nel cuore di un mandato presidenziale già segnato da tensioni interne e sospetti diffusi.

E proprio quando la Casa Bianca sperava che il caso potesse essere archiviato, una nuova fuga di notizie ha riaperto la ferita. Il Wall Street Journal ha pubblicato una lettera del 2003 in cui Trump faceva gli auguri a Epstein per il suo cinquantesimo compleanno con toni allusivi. Trump ha negato tutto, ma la rivelazione, che molti sospettano sia stata orchestrata da Ghislaine Maxwell, ha riacceso i riflettori sul passato.

Maxwell, oggi in carcere con una condanna a 20 anni per traffico sessuale, è stata definita dal suo ex avvocato Alan Dershowitz “la Stele di Rosetta” del sistema Epstein. E proprio Dershowitz, che in passato ha anche difeso Trump, ha lanciato a sorpresa una proposta destinata a far discutere: graziare Maxwell in cambio della sua testimonianza al Congresso. “Ghislaine sta scontando la pena che Epstein non ha avuto,” ha detto a Newsmax. “Non dovrebbe essere in carcere. Dovrebbe rivelare tutto quello che sa”.

Nel tentativo di contenere la pressione politica, Trump ha ordinato alla procuratrice generale Pam Bondi di desecretare una serie di testimonianze rese al gran giurì federale. Ma, come ricorda lo stesso Dershowitz, si tratta solo della punta dell’iceberg: “Le trascrizioni del gran giurì servono a ottenere incriminazioni, non a raccontare tutta la storia”. Gli incontri più riservati, le notti brave, gli appuntamenti fuori dal radar dell’FBI non compaiono in quei documenti. Quelle verità parziali sono conservate altrove: nella memoria di Maxwell e nei fascicoli custoditi dai suoi legali. Che, lentamente, cominciano ad affiorare.

Nel frattempo, la causa intentata da Trump contro il Wall Street Journal e Rupert Murdoch per la pubblicazione della lettera del 2003 è stata assegnata al giudice federale Darrin Gayles, nominato da Barack Obama nel 2014 e confermato dal Senato all’unanimità. Un dettaglio che ha acceso ulteriori sospetti tra i consiglieri del presidente, che temono un contesto giudiziario tutt’altro che neutrale.

Ma il colpo più duro arriva da una testimonianza che riemerge dopo anni, raccolta dal New York Times: quella di Maria Farmer, la prima donna a denunciare Epstein nel 1996. All’epoca ventenne, Farmer dichiarò di essere stata aggredita sessualmente da Epstein e Maxwell, e di aver assistito all’arrivo di Trump nell’ufficio del finanziere nel 1995, in una scena definita “inquietante”. “Mi fissava le gambe, mi sono sentita spaventata. Sembrava non sapere quanti anni avessi,” ha detto, aggiungendo che Epstein intervenne dicendo a Trump: “No, no. Lei non è qui per te.” Farmer afferma di aver riportato tutto alla polizia di New York e successivamente all’FBI, sia nel 1996 che nel 2006, citando esplicitamente il nome di Donald Trump e Bill Clinton tra le figure da indagare.

La Casa Bianca ha smentito seccamente. “Il presidente non è mai stato nell’ufficio di Epstein,” ha dichiarato il capo della comunicazione Steve Cheung. “Anzi, lo ha cacciato da uno dei suoi club perché era un viscido.” Ma i documenti dell’FBI, anche se parzialmente oscurati, sembrano confermare che Farmer fece quei nomi, e suggeriscono che nei cosiddetti Epstein Files possano esserci elementi imbarazzanti per Trump, anche se estranei alle accuse penali contro Epstein.

In Congresso cresce intanto la pressione bipartisan sul Dipartimento di Giustizia per la pubblicazione integrale dei dossier. La sensazione, anche tra i più fidati alleati del presidente, è che i frammenti emersi siano solo l’inizio di una narrazione ancora incompleta, e potenzialmente devastante.

Nella base MAGA il malcontento è sempre più evidente. Alcuni influencer della destra parlano apertamente di insabbiamento, mentre Trump prova a scrollarsi di dosso le accuse. Intorno a lui, il suo entourage si rifugia in battaglie simboliche, cercando disperatamente di spostare l’attenzione pubblica su altri temi, come il ritorno dei nomi Redskins e Indians nello sport professionistico. Per ora, la strategia sembra quella del silenzio: evitare il confronto diretto, sperando che lo scandalo svanisca da solo. Ma nella galassia conservatrice, sempre più inquieta, in molti cominciano a dubitare che questa tattica possa davvero funzionare.

Trump resta al centro della scena, tra autocelebrazioni e ombre che si allungano. Ma stavolta il fantasma non si lascia esorcizzare. Non è un rivale politico né un procuratore che si può accusare si averlo incriminato per farsi pubblicità. È il riflesso di un passato opaco, fatto di feste, silenzi e alleanze scomode, immortalato in fotografie che ora riemergono una dopo l’altra. E il rischio, per il presidente, è che il suo secondo mandato si trasformi in una corsa contro il tempo per tenere chiuso un vaso di Pandora che porta un solo nome: Jeffrey Epstein.

Nel tentativo di contenere la falla, Trump ha imboccato la strada della forza: querele, minacce legali, intimidazioni e un atto di citazione diretto al Wall Street Journal e al suo editore. Ma quella è solo la superficie, la parte visibile della battaglia. A turbare davvero la Casa Bianca è tutto ciò che resta nell’ombra, custodito gelosamente da Ghislaine Maxwell e dai suoi avvocati: documenti mai consegnati al gran giurì, dettagli sfuggiti all’FBI, nomi e date che nessuno ha ancora voluto leggere ad alta voce, forse nemmeno tra gli investigatori. E poi ci sono loro, le giovani vittime di allora, che oggi potrebbero avere finalmente la forza di raccontare. È una miniera di segreti, e Trump lo sa. Per questo cerca con ogni mezzo di tenerne il coperchio ben sigillato. Ma più lo stringe, più la pressione cresce. E il rischio che esploda è ogni giorno più vicino.

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Massimo Jaus

Massimo Jaus

Massimo Jaus, romano e tifoso giallorosso. Negli Stati Uniti dal 1972. Giornalista professionista dal 1974. Vicedirettore del quotidiano America Oggi dal 1989 al 2014. Direttore di Radio ICN dal 2008 al 2014. È stato corrispondente da New York del Mattino di Napoli e dell’agenzia Aga. Massimo Jaus. Originally from Rome and a Giallorossi fan. In the United State since 1972. A professional journalist since 1974. Deputy Editor of the daily paper America Oggi from 1989 to 2014. Has been New York correspondent for Naples' "il Mattino" and for Agenzia Aga.

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