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Il dossier Epstein riapre le ferite nel team Trump

Il caso che doveva inchiodare il “deep state” ora spacca l’amministrazione repubblicana

Massimo JausbyMassimo Jaus
Sempre testa a testa nei sondaggi e arriva una nuova accusa sessuale contro Trump

Donald Trump and Jeffrey Epstein in 1992 (YouTube screenshot: @CNBCtelevision)

Time: 4 mins read

Quella che per anni era stata l’arma retorica più potente contro il “deep state” democratico, il caso Epstein, sta ora diventando una fonte di imbarazzo e tensione all’interno della stessa amministrazione Trump. A cinque anni dalla sua misteriosa morte in carcere, il miliardario accusato di traffico sessuale continua a far tremare Washington. Ma questa volta, le domande non arrivano dai nemici del Presidente, bensì dalla sua base.

Nei giorni scorsi, l’FBI e il Dipartimento di Giustizia hanno pubblicato un promemoria che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto chiudere la vicenda: nessuna “lista clienti”, nessuna prova di omicidio, solo un suicidio, peraltro già indagato, confermato da un video di sorveglianza con un’interruzione proprio nel momento cruciale. Il documento ha invece avuto l’effetto opposto: ha infiammato la base, alimentando sospetti, accuse e voci di dimissioni tra le figure chiave del team Trump.

A scatenare la tempesta è Dan Bongino, ex guardia del corpo della Casa Bianca e oggi vicedirettore dell’FBI, nonché voce notissima tra i sostenitori MAGA grazie ai suoi podcast. Bongino, che per anni ha sostenuto la teoria secondo cui Epstein fosse il fulcro di una rete criminale protetta dalle élite, sarebbe entrato in rotta di collisione con la procuratrice generale Pam Bondi proprio sulla gestione del dossier. Secondo Axios, avrebbe perfino minacciato le dimissioni dopo un acceso confronto alla Casa Bianca. Trump ha cercato di gettare acqua sul fuoco: “Ho parlato con lui oggi, Dan Bongino è un bravissimo ragazzo” ha detto, evitando però di confermare se sia ancora in carica.

In realtà, le tensioni affondano più in profondità. Bongino, insieme al direttore dell’FBI Kash Patel e alla stessa Bondi, aveva promesso piena trasparenza, cavalcando per mesi l’idea che Jeffrey Epstein fosse il regista di una rete di abusi sessuali usata per ricattare le élite mondiali. Ma il promemoria diffuso il 7 luglio ha deluso le attese, alimentando la convinzione largamente diffusa nel mondo MAGA che Epstein fosse troppo scomodo per essere lasciato in vita. Una convinzione che si nutre di anomalie mai chiarite: il video di sorveglianza che si interrompe proprio nel momento cruciale, le due guardie che si “addormentano” contemporaneamente, i turni saltati, i controlli mai eseguiti. Per molti, non si tratta di una serie di coincidenze, ma di un insabbiamento vero e proprio orchestrato per proteggere nomi troppo potenti.

In questa lettura, che intreccia paranoia e disillusione alimentata dalle poco convincenti indagini della polizia sulla fine di Epsten, il finanziere pedofilo diventa il legame occulto tra George Soros, i Clinton, Obama, Bill Gates e il cosiddetto deep state. Ma ciò che rende la questione ancora più esplosiva è un dettaglio che la narrativa ufficiale evita accuratamente di affrontare: la lunga e documentata amicizia tra Donald Trump e Jeffrey Epstein negli anni Ottanta e Novanta. I due erano habitué delle stesse feste, degli stessi club esclusivi, spesso immortalati insieme in foto sorridenti. E oggi, mentre la Casa Bianca si trincera dietro il silenzio e i file promessi non vengono pubblicati, una domanda si fa largo anche tra i sostenitori più fedeli: Trump sta proteggendo la verità… o sta proteggendo se stesso?

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata la notizia della morte, ufficialmente classificata come suicidio, di Virginia Giuffrè, la donna che per prima aveva accusato il principe Andrea e che, pochi giorni prima, si era detta disponibile a testimoniare in nuove cause civili. Anche questo episodio ha riacceso le teorie di complotto, rafforzando l’idea che ogni voce scomoda venga sistematicamente fatta sparire.

Ma il vero segnale d’allarme è scattato a Tampa, durante lo Student Action Summit organizzato da Turning Point USA, dove i giovani conservatori, lo zoccolo duro della rinata coalizione trumpiana, ha apertamente contestato la gestione del caso. Fischi, critiche e accuse si sono abbattuti su Bondi e sul presidente stesso. Brandon Tatum, podcaster e volto noto tra gli attivisti, ha detto dal palco: “Credo che queste persone non ci stiano dicendo la verità su Epstein. E probabilmente lo fanno per proteggere qualcuno a cui non vogliono dare fastidio”.

Trump ha reagito con durezza inusuale verso la sua stessa base: “Siamo tutti nella stessa squadra MAGA, non mi piace quello che sta succedendo. Persone egoiste stanno cercando di minare un’amministrazione perfetta per un uomo che non muore mai, Jeffrey Epstein”, ha scritto su Truth Social, insinuando che i file su Epstein siano frutto di una montatura dei Democratici.

Parole che non hanno placato le critiche. Elon Musk, che ha rotto pubblicamente con Trump, ha definito Epstein “il tallone d’Achille” dell’amministrazione e ha chiesto di “pubblicare i file, come promesso”. Lo ha fatto rilanciando un post di giugno – poi cancellato – in cui accusava apertamente Trump di essere nella lista nera di Epstein.

Anche Tucker Carlson, ex volto di Fox News e voce influente del conservatorismo populista, ha denunciato la gestione opaca dell’indagine: “Il governo per cui ho votato si rifiuta di prendere sul serio le domande. ‘Caso chiuso’, dicono. Ma noi non ci accontentiamo più”.

Perfino Fox News, da sempre megafono trumpiano, ha lanciato un allarme in diretta. Charles Hurt, Rachel Campos-Duffy e Kevin Corke hanno sottolineato che “il caso Epstein richiede risposte” e che “ci sono ancora molte domande valide rimaste senza risposta”.

Il malcontento è palpabile anche tra gli strateghi. Charlie Kirk, fondatore di Turning Point USA, ha avvertito che il caso rischia di “sfiatare l’entusiasmo della base”, paragonando la delusione a “un palloncino che si sgonfia”. Ha definito i giovani trumpiani “i Ragazzi Perduti del MAGA”, e ha avvertito che, senza risposte, una parte del movimento potrebbe disimpegnarsi del tutto.

Megyn Kelly ha attaccato duramente Bondi in un podcast virale: “Non possiamo perdere pezzi della base per colpa sua”. Bannon, infuriato, ha avvertito: “Se perdiamo il 10% ora, perdiamo la presidenza. Non dovranno nemmeno rubarcela”.

Eppure, Bondi resta al suo posto. Trump la difende a spada tratta: “Sta facendo un lavoro fantastico”, ha ribadito. Ma il gelo resta, e il danno potenziale è tutto politico. Il caso Epstein, che doveva servire a smascherare i nemici, ora rischia di svelare le crepe dentro il trumpismo.

La platea di Tampa ha applaudito la retorica sul muro al confine con il Messico, sulle armi e sulla battaglia contro il “woke”, ma ha fischiato su tre fronti: l’Ucraina, l’immigrazione “selettiva”, e, soprattutto, sulla vicenda Epstein.
E come ha sintetizzato Alex Peña, giovane elettore MAGA: “Le stesse cose di cui ci lamentavamo con Biden, ora le sta facendo Trump”.

Il caso Epstein è diventato un banco di prova. Non solo per la credibilità dell’amministrazione. Ma per la tenuta stessa della coalizione MAGA. Una bomba a orologeria, secondo Fox. Un boomerang, secondo Bannon. Un segnale, secondo molti: che neppure Trump, stavolta, può giocare con la verità.

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Massimo Jaus

Massimo Jaus

Massimo Jaus, romano e tifoso giallorosso. Negli Stati Uniti dal 1972. Giornalista professionista dal 1974. Vicedirettore del quotidiano America Oggi dal 1989 al 2014. Direttore di Radio ICN dal 2008 al 2014. È stato corrispondente da New York del Mattino di Napoli e dell’agenzia Aga. Massimo Jaus. Originally from Rome and a Giallorossi fan. In the United State since 1972. A professional journalist since 1974. Deputy Editor of the daily paper America Oggi from 1989 to 2014. Has been New York correspondent for Naples' "il Mattino" and for Agenzia Aga.

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