Nei giorni del conflitto fra Israele e Iran si è andato delineando il classico pallottoliere internazionale di amici e nemici di uno o dell’altro sfidante. Nel subbuglio creato dalla guerra è interessante vedere dove e come si schierano i vari attori internazionali che hanno più o meno interessi nella guerra in corso. Fra questi c’è il Pakistan, paese confinante con l’Iran nonché uno dei pochi stati al mondo a detenere l’arma nucleare.
Il 14 giugno, giorno dopo lo scoppio del conflitto, il capo dell’esercito pakistano Asim Munir ha avuto un incontro di due ore con Donald Trump. A seguito del summit il generale ha espresso la sua “profonda gratitudine” a Trump per il ruolo svolto nel conflitto fra Pakistan e India di inizio maggio. Il presidente americano ha a sua volta incensato l’incontro, dicendosi “onorato” di aver incontrato il generale. Un cambio notevole nelle relazioni fra Washington e Islamabad che però, come riferito ad Al Jazeera dall’esperta di sicurezza Sahar Khan, non significa che i due paesi “siano amici”, piuttosto che vi sia stato un “ammorbidimento della relazione”.
I paesi a maggioranza islamica del sud asiatico – Afghanistan, Bangladesh, Maldive e Pakistan – hanno fortemente condannato gli attacchi israeliani all’Iran; fra gli attori citati nessuno ha legami formali con Israele mentre tutti hanno relazioni amichevoli con Teheran – gli stessi sono inoltre legati da significativi scambi commerciali con il Medio Oriente e dalla presenza di diversi concittadini emigrati nell’area. Di quelli citati, il Pakistan è probabilmente il paese più colpito dallo scoppio della guerra fra Iran e Israele e, per la sua posizione sullo scacchiere internazionale, è impegnato in un difficile equilibrio diplomatico.
Una misura la danno i fatti di sabato scorso quando, con un’ardita mossa comunicativa, il governo pakistano aveva suggerito il Presidente Trump come meritevole del premio Nobel per la Pace definendo le sue azioni sul conflitto fra Pakistan e India come “una testimonianza del suo ruolo di autentico pacificatore”. Tuttavia, meno di 24 ore dopo Islamabad ha condannato il bombardamento americano sui siti del nucleare iraniano come una “violazione del diritto internazionale” e dello statuto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Un cambio dialettico esemplificativo della posizione pakistana, costretta a barcamenarsi fra la solidarizzazione con Teheran e la rinnovata nascente amicizia con Washington.
I rapporti fra Iran e Pakistan sono buoni, una delegazione del governo pakistano – in cui erano presenti sia il Primo Ministro Shehbaz Sharif che il capo dell’esercito Asim Munir – ha visitato lo scorso mese Teheran per rafforzare la cooperazione fra i due paesi. Le buone relazioni sono dovute sia a una consistente presenza sciita che si aggira fra il 15 e il 20% – tra i 37 e i 50 milioni di persone – che alla vicinanza geografica che lega i due paesi con 900 km di confine. Questi due fattori fanno sì che il Pakistan non possa che dichiararsi contrario ai bombardamenti americani, sia per i risvolti interni che causerebbe una maggiora timidezza sia per l’interesse a che non si generi un vuoto di potere in un paese così vicino al proprio. Questione, quest’ultima, che causerebbe grosse difficoltà al confine, dove insistono sia gruppi terroristici islamici che i separatisti dell’etnia Beluci. Motivo per cui il Pakistan ha ordinato la chiusura dei valichi di frontiera poco dopo gli attacchi israeliani.
All’interno di questo complesso mosaico si aggiungono le relazioni di Islamabad con Cina e India. Pechino ha investito 62 miliardi di dollari per la costruzione del cosiddetto Corridoio Economico Cina-Pakistan, enorme progetto infrastrutturale che ha l’obiettivo di collegare direttamente la regione cinese dello Xinjiang al Mare Arabico: terminale ultimo nella città portuaria di Gdwar, luogo di significativa importanza strategica per la Cina. Inoltre, Islamabad acquista più dell’80% dei propri armamenti dalla Cina. Le relazioni avanzate fra questi due paesi – anche in funziona anti-indiana dal momento che Nuova Delhi è nemica giurata di entrambi – rendono complesse le relazioni fra Islamabad e Washington. Anche se, come spesso avviene, la politica estera di “non allineamento” fra le due superpotenze genera una massimizzazione del profitto diplomatico e strategico: fra i due litiganti….
Nel recente fiorire di speculazioni sui possibili scenari futuri della guerra fra Iran e Israele, c’è quella portata avanti dall’attuale vicepresidente del consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev. L’ex presidente ha affermato che ci sono “diversi Paesi pronti a fornire direttamente all’Iran le loro armi nucleari”. Riferendosi a Trump ha poi detto che a seguito del bombardamento ordinato “può scordarsi il Premio Nobel per la Pace”. Aldilà della battuta provocatoria, lo scenario in cui il Pakistan rifornisca con armi atomiche il vicino iraniano è, per fortuna, uno scenario che appare piuttosto improbabile, anche se di questi tempi la cautela non è mai troppa. Islamabad ha interesse a che l’Iran non si disunisca, motivo per cui potrebbe pensare di rifornire gli ayatollah con l’atomica. Ma pensare alla realizzazione di un intervento di questa portata, che costerebbe un’eterna inimicizia con Washington in un paese già gravato da proprie consistenti fragilità interne, è molto (molto) improbabile.