Con una decisione unanime destinata a far discutere, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che le vittime americane di attentati terroristici avvenuti in Medio Oriente, e i familiari delle vittime decedute, potranno citare in giudizio l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nei tribunali federali americani.
La sentenza rappresenta una svolta nella lunga battaglia legale per il riconoscimento di responsabilità nei confronti delle entità palestinesi da parte di cittadini statunitensi colpiti da attacchi fuori dal territorio nazionale.
La decisione conferma la costituzionalità del Promoting Security and Justice for Victims of Terrorism Act, una legge approvata dal Congresso nel 2019 per offrire un “foro adeguato” alle vittime statunitensi di terrorismo internazionale. Secondo i giudici della Corte Suprea, la norma non viola il diritto al giusto processo garantito dal Quinto Emendamento e rientra nei poteri del Congresso in materia di politica estera e giurisdizione.
Scrivendo la sentenza, il presidente John Roberts ha sottolineato il forte interesse del governo federale nel fornire un meccanismo legale alle vittime statunitensi: “Il governo federale – scrive Roberts – ha un interesse estremamente impellente nel fornire un forum alle vittime americane affinché possano ritenere responsabili gli autori di atti di terrorismo internazionale che danneggiano i cittadini statunitensi”.
Roberts ha ribadito che i cittadini americani, anche all’estero, restano “sotto la particolare protezione della legge americana”, legittimando quindi l’intervento della giustizia federale in loro favore.
Il caso ha origine da una serie di attentati avvenuti tra il 2002 e il 2004 nell’area di Gerusalemme. Sei attacchi, tra sparatorie ed esplosioni, causarono numerose vittime civili, tra cui cittadini americani. Le famiglie coinvolte hanno sostenuto che l’ANP e l’OLP avessero fornito sostegno materiale agli autori, incluso un sistema di compensazione economica per i detenuti accusati di terrorismo e per le famiglie di coloro che avevano perso la vita compiendo gli attacchi.
Nel 2015 una giuria riconobbe loro un risarcimento da 655 milioni di dollari, poi annullato nel 2016 dalla Corte d’Appello del Secondo Circuito per mancanza di giurisdizione. Il Congresso rispose approvando la legge del 2019 che ha portato alla decisione di oggi.
La sentenza, tuttavia, mette in luce una profonda asimmetria giuridica. Mentre le vittime americane di attentati all’estero possono ora ottenere giustizia nei tribunali federali, non esiste una possibilità equivalente per le vittime straniere delle azioni militari americane.
Civili uccisi o feriti da bombardamenti aerei, attacchi con droni o operazioni condotte da contractor privati come Blackwater in teatri di guerra come Iraq, Afghanistan, Somalia o Yemen non hanno accesso alle aule di giustizia negli Stati Uniti. Il principio dell’immunità sovrana protegge il governo americano da cause legali per danni arrecati all’estero, anche in casi di errori riconosciuti. E anche quando esiste un meccanismo amministrativo (come il Foreign Claims Act), esso è limitato, discrezionale, e spesso escluso in operazioni di combattimento attive.
Inoltre, i tribunali americani rifiutano regolarmente di pronunciarsi su questi casi invocando la Political Question Doctrine, ritenendo che le azioni militari o di politica estera rientrino nell’esclusiva competenza dell’esecutivo e non possano essere valutate in sede giudiziaria.
La sentenza della Corte Suprema potrebbe ora rilanciare diverse cause pendenti, come quella avviata nel 2020 dalla famiglia di Ari Fuld, cittadino americano ucciso in Cisgiordania. Ma lascia irrisolto un nodo cruciale del diritto internazionale: la giustizia per le vittime civili non può essere unidirezionale. La legge americana, al momento, protegge i propri cittadini ovunque nel mondo, ma non riconosce lo stesso diritto a chi subisce, in contesti analoghi, danni causati dagli Stati Uniti.