La posizione dei paesi del Golfo sulla guerra fra Iran e Israele è ben chiara: le Monarchie sono contrarie. Lo sviluppo economico cui aspirano, il soft power cui anelano e il green washing che praticano sono temi incompatibili sia con lo scoppio di una guerra regionale sia con la possibilità che Israele diventi l’egemone incontrastato (o quasi) del Medio Oriente. Una balance of power è necessaria a tutti. Fin quando il piatto della bilancia pendeva a favore di Israele andava bene, ma Tel Aviv egemone regionale è troppo.
Dopo l’attacco israeliano di venerdì scorso il principe saudita Moḥammad bin Salmān e il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohamed bin Zayed Al Nahyan hanno espresso la loro solidarietà all’Iran con una telefonata al presidente Masoud Pezeshkian condannando ripetutamente l’attacco israeliano. Stessa posizione hanno adottato l’emiro del Qatar e il sultano dell’Oman. Ulteriori contatti sono avvenuti fra i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Kuwait e il loro omologo iraniano Abbas Araghchi.
Come dichiarato al Financial Times da Bader Al-Saif, professore alla Kuwait University, un intervento diretto da parte degli Stati Uniti nel conflitto sarebbe per i paesi del Golfo la concretizzazione del worst case scenario. Motivo per cui i diplomatici dell’area si stanno muovendo alacremente nel tentativo di scongiurare questa possibilità, già divenuta più remota con le “due settimane” di tempo chieste da Donald Trump. La paura massima dei paesi del Golfo è che vengano usate le basi americane che hanno nei loro paesi per sferrare attacchi all’Iran. Washington ha infatti una presenza militare in Medio Oriente stimata fra i 40.000 e i 50.000 uomini, con basi in diversi paesi.
Attacchi provenienti dagli stati in questione – ad esempio dalle basi Usa in Qatar, Bahrain o Kuwait – finirebbero per trascinarli nel conflitto. In un simile scenario, come affermato martedì dal viceministro degli Esteri iraniano Majid Takht-Ravanchi alla Cnn “non avremmo altra scelta se non quella di rispondere ovunque troviamo gli obiettivi necessari”.
Tuttavia, l’attuale posizione dei leader dei paesi del Golfo deve suonare poco sincera alle orecchie degli apparati governativi di Teheran. Fino, orientativamente, al 2023, in particolare fino all’attacco del 7 ottobre, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri stati del Golfo condividevano con Israele un atteggiamento di netto contrasto nei confronti dell’Iran e della sua longa manus sulla regione. Motivo per cui, per contrastarne l’espansione, era da tempo in corso una normalizzazione dei rapporti con Israele. Al culmine di questa parabola di avvicinamento fra paesi del Golfo e Tel Aviv ci sono stati gli Accordi di Abramo, che hanno coinvolto direttamente Emirati Arabi Uniti e Bahrein e hanno genericamente rappresentato un tassello tangibile di distensione fra tutti i paesi dell’area e Israele.
La situazione è drasticamente cambiata fra il 2023 e il 2024, quando Israele ha decimato i vertici dell’“Asse della resistenza” iraniano. Si inseriscono in quest’ottica anche le mosse di Trump precedenti allo scoppio del conflitto di venerdì scorso. Ad esempio, il neopresidente non solo aveva deciso di non far visita in Israele durante il suo viaggio in Medio Oriente, ma aveva già manifestato la sua volontà di raggiungere un accordo sul nucleare iraniano, fumo negli occhi per Netanyahu, toccasana per le Monarchie del Golfo – prima a assolutamente contrarie a simili patti. La pace fra queste ultime e Israele andava bene, ma all’interno di una bilancia in cui nell’altro piatto c’era Teheran. La dissoluzione dell’Iran e la distruzione della bilancia non piacciono a quelle latitudini, segnando un altro punto a favore di chi preferisce buttare acqua sul fuoco mediorientale.