Il presidente Donald Trump è confrontato da una delle decisioni più critiche della sua presidenza: unirsi a Israele nella guerra contro l’Iran oppure restare a margine di un conflitto che minaccia di infiammare tutto il Medio Oriente. Dopo settimane di retorica incendiaria e post bellici sui social, la Casa Bianca si è trasformata in una stanza di guerra. Trump ha convocato i suoi più stretti collaboratori nella Situation Room e ha parlato al telefono con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In gioco non c’è solo la sicurezza regionale, ma la credibilità internazionale degli Stati Uniti.
L’opzione più drastica sul tavolo, scrive il Washington Post, resta l’uso delle cosiddette bunker-buster, bombe a penetrazione profonda concepite per distruggere bersagli protetti in profondità nel sottosuolo. L’obiettivo: l’impianto di arricchimento nucleare di Fordow, sepolto sotto 80 metri di roccia calcarea e inaccessibile all’aviazione israeliana. Le uniche armi in grado di raggiungerlo sono bombe statunitensi come la GBU-57 MOP (Massive Ordnance Penetrator), da 15 tonnellate, capaci di perforare fortificazioni sotterranee. E l’unico vettore adatto a sganciarle è il bombardiere stealth B-2 Spirit, insieme ai B-52 Stratofortress, velivoli strategici che solo gli Stati Uniti possiedono. In altre parole, un attacco a Fordow non può che essere esclusivamente americano, con tutte le implicazioni politiche e militari che ne derivano.
Un simile raid rappresenterebbe un atto di guerra formale: un attacco diretto e deliberato a un’infrastruttura chiave della Repubblica Islamica, con il concreto rischio di innescare ritorsioni su larga scala. In un contesto già incandescente, le possibilità di un’escalation regionale, che coinvolga Hezbollah, milizie sciite in Iraq e che rischia di chiamare in causa anche la Siria, diventerebbero altissime. E sul piano strategico, un raid fallito o parziale potrebbe ottenere l’effetto opposto: spingere l’Iran ad abbandonare ogni residua ambiguità e procedere apertamente verso lo sviluppo dell’arma atomica, in nome della deterrenza.
Ma anche se l’operazione riuscisse a distruggere Fordow e a ritardare il programma nucleare, resterebbe irrisolta la questione del “dopo”. Come insegna la lunga e dolorosa esperienza americana in Iraq e Afghanistan, il bombardamento è solo l’inizio. La destabilizzazione di un regime autoritario può aprire il vaso di Pandora del caos settario, del collasso istituzionale e della radicalizzazione. Chi controllerebbe l’Iran post-Fordow? Chi si assumerebbe l’onere politico, economico, militare, di evitare che un Paese di 88 milioni di abitanti cada nel vuoto geopolitico, magari con la Russia o la Cina pronte a riempirlo?
In questo scenario, la potenza militare americana, per quanto sofisticata, rischia di diventare prigioniera delle proprie capacità: capace di colpire ovunque, ma non sempre di costruire quel futuro sperato dopo il cratere.
Dietro le quinte, il comandante del CENTCOM, generale Michael “Erik” Kurilla, soprannominato “il Gorilla”, sta spingendo per una risposta militare aggressiva. Le sue richieste al segretario alla Difesa Pete Hegseth sono state finora sistematicamente approvate: portaerei spostate, caccia F-22 e F-35 dispiegati, bombardieri B-2 pronti all’uso. Secondo Politico, Kurilla sta agendo con più accesso diretto a Trump rispetto ad altri alti ufficiali, scavalcando il capo degli Stati Maggiori Riuniti Dan Caine e lo stesso Elbridge Colby, fautore di una dottrina realista più cauta. Il CENTCOM, affermano fonti del Pentagono, sta “accaparrandosi asset da ogni altro teatro operativo”.
I recently visited Hiroshima, and stood at the epicenter of a city scarred by the unimaginable horror caused by a single nuclear bomb dropped in 1945. What I saw, the stories I heard, and the haunting sadness that remains, will stay with me forever. pic.twitter.com/TmxmxiGwnV
— Tulsi Gabbard 🌺 (@TulsiGabbard) June 10, 2025
Ma mentre Trump valutava l’intervento, una voce nel suo stesso Gabinetto ha scelto di dissociarsi pubblicamente. Tulsi Gabbard, direttrice dell’Intelligence Nazionale, ha pubblicato giorni fa un video in cui avvertiva che “i guerrafondai” stanno “fomentando paura tra potenze nucleari” e che il mondo è “sull’orlo dell’annientamento”. Il video ha fatto infuriare Trump, che ha interpretato il gesto come un tentativo di correzione pubblica della linea della Casa Bianca. “Non mi interessa cosa ha detto”, ha tagliato corto a bordo dell’Air Force One quando un giornalista gli ha chiesto conto delle sue dichiarazioni.
Fonti interne parlano di un presidente sempre più diffidente nei confronti di Gabbard, tanto da tornare a valutare la possibilità di smantellare l’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale o trasferirne parte dei poteri alla CIA. Gabbard – una voce anti-interventista già nota per le sue posizioni sull’Ucraina e sulla Siria – è oggi sotto pressione sia dentro che fuori la Casa Bianca. I falchi dell’Amministrazione hanno letto il suo gesto come uno schiaffo all’Amministrazione, mentre alleati come JD Vance e lo staff del vicepresidente si sono affrettati a difenderla.
Tuttavia, la sua assenza in un vertice chiave a Camp David, ufficialmente per obblighi con la Guardia Nazionale, ha alimentato le speculazioni. Anche Steve Bannon e Tucker Carlson hanno sollevato dubbi sul suo ruolo nella gestione della crisi, chiedendosi se la sua influenza sia ormai marginale.
Mentre il fronte interno si incrina, quello internazionale è spaccato. Al G7 in Canada, il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha appoggiato Israele definendo l’attacco all’Iran “il lavoro sporco per tutti noi”. Ma Emmanuel Macron e i ministri dell’Unione Europea hanno chiesto de-escalation e negoziati. “Cambiare i regimi con operazioni militari è sempre stato un errore strategico”, ha ammonito il presidente francese.
Donald Trump è ora stretto tra due spinte opposte: quella bellicista, rappresentata dal Pentagono e da Israele, e quella prudente, incarnata da Gabbard e da una parte del suo elettorato più isolazionista. Finora, gli Stati Uniti hanno fornito supporto aereo e navale a Israele, ma nessun attacco diretto è ancora stato ordinato. Tuttavia, l’impiego delle “bunker-buster” contro Fordow, sempre più concretamente discusso, potrebbe segnare il punto di non ritorno.