Martedì pomeriggio, nella Situation Room della Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha riunito per oltre un’ora e venti minuti il suo Consiglio di Sicurezza Nazionale per discutere della guerra in corso tra Israele e Iran. Un incontro definito “operativo” da un funzionario dell’amministrazione, che ha parlato in condizione di anonimato. Nessun dettaglio sostanziale è trapelato, ma una cosa è chiara: il presidente sta seriamente considerando di unirsi alla campagna aerea israeliana, anche se insiste sul fatto che “finora gli Stati Uniti non hanno avuto alcun ruolo diretto nella guerra”.
Affermazioni che si scontrano con quanto scritto dallo stesso presidente su Truth Social culminati con una parola in lettere maiuscole: “ARRENDERSI”, resa incondizionata. “Ali Khamenei è un bersaglio facile, per ora è al sicuro. La nostra pazienza sta finendo”.
Dietro le formule diplomatiche si nasconde una realtà difficile da nascondere: l’opzione più concreta, scrive il New York Times è l’uso delle gigantesche bombe bunker-buster da 13,6 tonnellate contro l’impianto di arricchimento dell’uranio di Fordow, sepolto sotto una montagna e fuori dalla portata dell’aviazione israeliana. Solo i bombardieri stealth B-2 americani con le bombe GBU-57/B da 13,6 tonnellate sono in grado di colpirlo.
“Smantellare il programma nucleare iraniano resta la priorità assoluta del presidente”, hanno fatto sapere alti funzionari della sicurezza nazionale, ricordando che i servizi occidentali continuano a ritenere che Teheran miri alla costruzione di un’arma atomica, anche se l’Iran nega con forza.
Nel frattempo, il Pentagono ha rafforzato la sua presenza nel Golfo. Una seconda portaerei, la USS Nimitz è in rotta verso la regione, nuove petroliere da rifornimento sono state posizionate nel Mediterraneo e il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha dichiarato che gli spostamenti militari servono a “proteggere le forze statunitensi” e “offrire più opzioni al comandante in capo”.
Ma a Washington la vera battaglia è politica. Le minacce crescenti del presidente all’Iran e il flirt pubblico con l’idea di unirsi alla campagna israeliana hanno riaperto un dibattito sopito da anni: chi ha il potere di portare gli Stati Uniti in guerra?
Alla Camera, martedì, il democratico Ro Khanna (California) e il repubblicano libertario Thomas Massie (Kentucky) hanno presentato una risoluzione che richiede l’approvazione del Congresso prima che le truppe statunitensi possano condurre attacchi offensivi contro l’Iran. A sostegno, altri tredici democratici, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez. Nessun altro repubblicano si è aggiunto. Una proposta simile è arrivata al Senato lunedì, firmata dal democratico Tim Kaine (Virginia). Le risoluzioni godono di uno status procedurale speciale e dovranno essere votate nei prossimi giorni. Lo speaker della Camera, Mike Johnson, finora ha evitato che i suoi deputati siano costretti a esprimersi pubblicamente su un eventuale scontro con Trump. Ma la pressione aumenta.
Il clima è tesissimo anche tra i membri del GOP. Il senatore Lindsey Graham ha dichiarato di “voler fare tutto il possibile per aiutare Israele a distruggere il programma nucleare iraniano”. Il senatore dell’Ohio Bernie Moreno, invece, ha affidato ogni decisione a Trump: “Ho totale fiducia nel presidente degli Stati Uniti”. Nel campo opposto, il vicepresidente J.D. Vance ha lanciato un appello alla base MAGA e agli isolazionisti, invitandoli a “fidarsi del giudizio del presidente”, e lodando la “notevole moderazione” mostrata finora. “Permettere a Netanyahu di trascinarci in un’altra guerra infinita sarebbe un errore catastrofico”, ha dichiarato anche la senatrice democratica Elizabeth Warren.
Ma è proprio all’interno della base MAGA che si gioca una delle partite politiche più delicate per Trump. L’interventismo militare, anche se motivato dalla sicurezza nazionale o dalla difesa di Israele, rischia di entrare in rotta di collisione con l’anima populista e isolazionista che ha alimentato la sua ascesa nel 2016. Molti elettori di base vedono l’eventuale attacco all’Iran come un tradimento della promessa di porre fine alle “guerre infinite” del passato. Alcuni opinionisti conservatori, tra cui Steve Bannon e Charlie Kirk, hanno già espresso pubblicamente la loro opposizione a un coinvolgimento diretto. “Trump è stato eletto per combattere il deep state, non per bombardare l’Iran”, ha scritto Bannon su Telegram. L’equilibrio è precario: un intervento militare, anche mirato, potrebbe galvanizzare i sostenitori repubblicani più tradizionali, ma alienare proprio quella base radicale che oggi rappresenta il cuore pulsante del trumpismo.
La tensione attraversa anche il Pentagono. Elbridge Colby, sottosegretario alla Difesa, è tra quelli che spingono per concentrare le risorse sulla Cina, mentre il generale Michael Kurilla, a capo del Centcom, ha confermato di aver fornito a Trump “un’ampia gamma di opzioni”. Kurilla è stato uno dei promotori dell’“Operazione Rough Rider” contro gli Houthi, conclusa bruscamente dopo aver bruciato oltre un miliardo di dollari in missili, droni e mezzi abbattuti.
Il dibattito si è esteso ai media conservatori. Tucker Carlson, voce influente della destra populista, ha attaccato pubblicamente i “guerrafondai” che chiedono l’intervento in Iran. Trump ha replicato duramente: “Qualcuno spieghi al bizzarro Tucker Carlson che l’IRAN NON POTRÀ MAI AVERE UN’ARMA NUCLEARE”.
Secondo l’ex ambasciatore Daniel Shapiro, “Trump sta radunando le forze per un possibile attacco a Fordow. Non significa che abbia deciso di farlo, ma vuole essere pronto”. Alcune fonti parlano di un tentativo diplomatico di ultima ora, affidato al suo inviato Steve Witkoff, per costringere Teheran a firmare un nuovo accordo. E mentre il Congresso si accapiglia tra dichiarazioni bellicose e richiami costituzionali, resta aperta la domanda: Trump cercherà davvero un accordo? O ha già scelto la strada delle bombe?