È una storia di fiducia tradita, interessi incrociati e risentimenti personali quella tra il presidente Donald Trump ed Elon Musk. Un’alleanza nata per convenienza, cementata da milioni di dollari, ma naufragata nel momento in cui il tornaconto è venuto meno. Un “c’eravamo tanto amati” in chiave populista e tecnologica, finito sotto il peso di recriminazioni reciproche, e accuse sensazionalistiche, come quella lanciata d Musk che con un post afferma che Trump aveva stretti legami con il finanziere e molestatore sessuale Jeffrey Epstein.
“È ora di sganciare la bomba più grande”, ha scritto Musk su X, la piattaforma social di sua proprietà. “Trump è nei file di Epstein. Questo è il vero motivo per cui non sono stati resi pubblici”. Pochi minuti dopo, ha aggiunto: “Contrassegna questo post per il futuro. La verità verrà a galla”.
I nomi di personaggi potenti precedentemente associati a Epstein – morto in un poco chiaro suicidio nel carcere di Manhattan nel 2019 – tra cui Trump, il principe Andrea e l’ex presidente Clinton, sono stati menzionati nei documenti giudiziari relativi ai decenni di abusi sessuali di Epstein. Trump, prima di essere eletto a novembre, aveva affermato che non avrebbe avuto “alcun problema” a pubblicare i file relativi ad Epstein, una richiesta avanzata da alcuni legislatori e da molti utenti dei social media dopo la morte di Epstein. Ma i documenti, tuttavia, non sono mai stati rilasciati. Trump ha svelato di averlo cacciato, Elon “sembrava matto”.
Ma il crescendo di accuse e recriminazioni non si ferma: Trump minaccia di rescindere tutti i contratti con Musk e le sue aziende. Di rimando il leader della Tesla chiede in un post l’impeachment Trump dopo aver cancellato il progetto spaziale Dragon di SpaceX, vitale per la Iss e il programma spaziale della Nasa.
“È ora di creare un nuovo partito politico in America che rappresenti effettivamente l’80% della popolazione di mezzo?”, scrive Musk lanciando sul suo social il sondaggio e i suoi follower possono esprimere parere positivo o negativo rispondendo al post per 24 ore. Pochi minuti dopo il suo post circa 260.000 persone avevano già votato, esprimendosi con un sì, l’84% dei voti espressi.
A Wall Street le azioni della Tesla in poche ore hanno perso circa il 10%, bruciando circa 100 miliardi di dollari.
Una vera e propria lotta tra titani: da un lato Trump, forte dell’incrollabile sostegno della base MAGA; dall’altro Musk, idolatrato dai “Muskites”, fan devoti tanto alle sue idee tecnologiche e libertarie quanto alla sua visione anti-woke del capitalismo.
A differenza del presidente, Musk ha sempre usato con disinvoltura la sua fortuna per influenzare il potere. Dopo aver donato 250 milioni di dollari alla campagna elettorale di Trump per le presidenziali del 2024, è stato ricompensato con la guida del Department of Government Efficiency (DOGE), un organismo creato per rispondere alla retorica anti-sprechi dell’amministrazione. Una struttura ibrida, priva di reale autorità ma con grande visibilità, incaricata di scovare sprechi e truffe nel bilancio federale. I risparmi promessi avrebbero dovuto finanziare parte del piano di spesa dell’esecutivo. Ma finora, nessun risultato concreto.
Le prime crepe nell’idillio sono emerse quando Musk è stato costretto a dimettersi, ufficialmente per “divergenze politiche”, pochi giorni prima che il Congresso approvasse il controverso disegno di legge di bilancio proposto da Trump. Tra le misure previste, anche l’abolizione del credito d’imposta federale da 7.500 dollari per i veicoli elettrici — un colpo diretto a Tesla, che ha subito un crollo in Borsa di oltre l’8%. Musk ha definito la misura una “abominazione disgustosa”.
Ferito nel portafoglio e nel prestigio, Musk ha criticato pubblicamente il disegno di legge, bollato come pieno di “pork fat”, ossia spese inutili. Ha denunciato la mancanza di tagli ai sussidi per i combustibili fossili e l’eccessivo aumento del deficit federale. Le sue parole hanno fatto infuriare Trump, che lo ha accusato di essere affetto dalla “Trump Derangement Syndrome” e di essersi rivoltato solo dopo aver perso la sua influenza all’interno della Casa Bianca.
Musk, da parte sua, si è detto tradito, sostenendo di aver giocato un ruolo decisivo nella vittoria elettorale di Trump. “Senza di me avrebbe perso le elezioni”, ha scritto su X, lanciando attacchi quotidiani all’ex alleato e bollando il presidente come “ingrato”.
Il colpo ha centrato il bersaglio. Durante una conferenza stampa con il cancelliere tedesco Friedrich Merz, Trump ha ammesso di essere “molto deluso” da Musk. “Io e Elon avevamo un grande rapporto. Non so se ce l’avremo ancora”, ha detto, ricordando che Musk conosceva la legge di bilancio “meglio di chiunque altro” e che “non aveva mai sollevato obiezioni prima di lasciare la Casa Bianca”.
Trump ha anche rivendicato di aver “aiutato molto Elon”, suggerendo che le critiche del miliardario siano legate esclusivamente all’eliminazione degli incentivi per le auto elettriche. Ha minimizzato il ruolo di Musk nella vittoria elettorale, affermando che avrebbe vinto in Pennsylvania anche senza di lui.
La replica di Musk non si è fatta attendere: “La proposta di legge di bilancio non mi è mai stata mostrata. È stata approvata in una notte, così in fretta che nessuno al Congresso ha potuto leggerla”, ha scritto su X, accusando Trump di mentire spudoratamente.
Infine, il presidente ha paragonato Musk a una lunga serie di ex collaboratori che, una volta usciti dall’orbita presidenziale, si sono trasformati in critici. “Gli manca questo posto”, ha detto. “La gente lascia la mia amministrazione e poi le manca così tanto che diventa ostile.”
Ma dietro lo scontro personale tra due ego ipertrofici rimbalza qualcosa di più profondo: il fallimento di un’idea di potere costruita sulla vanità reciproca, sull’illusione che i miliardi possano comprare tutto, persino la lealtà. Trump ha usato Musk come simbolo del successo privato che si piega all’interesse nazionale. Musk ha usato Trump come scorciatoia per plasmare a propria immagine la macchina statale. Entrambi, oggi, sembrano pagare il prezzo della loro arroganza.
In fondo, la loro alleanza è stata la perfetta rappresentazione della politica contemporanea: fragile, impulsiva, costruita più su post e hashtag che su visioni. Ora che i like si trasformano in pugnalate e le promesse in vendette, resta solo un’amara morale: chi gioca al potere come fosse un business personale, prima o poi scopre che il conto arriva. E non fa sconti a nessuno.