Con un colpo di penna, il presidente Donald Trump ha raddoppiato i dazi su acciaio e alluminio, portandoli al 50%. Una decisione che scuote l’economia americana e accende nuove frizioni con gli alleati commerciali.
La misura, giustificata dalla Casa Bianca come necessaria per motivi di sicurezza nazionale, è stata accolta con entusiasmo dai dirigenti dell’industria siderurgica, ma ha subito suscitato allarme tra i costruttori di automobili, i produttori di lattine e quelli di elettrodomestici e il settore edilizio, che temono un’impennata dei costi e ripercussioni occupazionali.
Il dazio colpisce tutti i partner commerciali, ad eccezione del Regno Unito. Un’esclusione che non è passata inosservata. Durissime le reazioni dei due vicini di casa. La presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, ha definito la mossa “ingiusta” e ha annunciato contromisure già dalla prossima settimana. “Una decisione ingiustificata, illegale e dannosa per i lavoratori e le industrie su entrambi i lati del confine”, ha incalzato il premier canadese Mark Carney.
L’industria siderurgica americana, da tempo in difficoltà per la concorrenza globale, esulta. “Consumiamo più acciaio di quanto ne produciamo”, ha dichiarato Lourenco Goncalves, CEO di Cleveland Cliffs e presidente dell’American Iron and Steel Institute. Secondo Goncalves, il dazio al 50% aumenterà il costo di produzione di un’auto di appena 300 dollari: “una cifra marginale”, ha detto.
Ma secondo diversi analisti, l’impatto sarà ben più ampio. I costi aggiuntivi si estenderanno a settori che impiegano milioni di lavoratori, dal comparto automobilistico agli elettrodomestici, fino all’edilizia. I dazi, pensati per proteggere alcune migliaia di posti nel settore dell’acciaio, rischiano di comprometterne molti di più in altre zone produttive.
Il Congressional Budget Office, interpellato dai parlamentari democratici che si oppongono ai dazi, ha stimato che queste nuove tariffe rallenteranno la crescita economica nel biennio 2025–2026 e spingeranno l’inflazione in media dello 0,4% all’anno. Il potere d’acquisto delle famiglie diminuirà, mentre le imprese dovranno fronteggiare un generale aumento dei costi. A contribuire al rialzo dei prezzi, anche le prevedibili contromisure da parte dei partner commerciali.
Ma la partita si gioca anche nelle aule dei tribunali. La Corte federale del Commercio Internazionale ha stabilito un paio di settimane fa che il presidente ha ecceduto la propria autorità, imponendo dazi senza passare dal Congresso. La sentenza riguarda anche altre tariffe annunciate a inizio aprile, come il dazio base del 10% e quello del 20% specifico per la Cina, la cui applicazione è ora sospesa fino al 9 luglio.
L’amministrazione ha già annunciato di voler ricorrere alla Corte Suprema per chiedere un provvedimento d’urgenza che sblocchi i dazi, nella convinzione che il presidente abbia piena facoltà di agire in difesa della sicurezza economica nazionale.
Trump, con il ritorno alla politica dei dazi per proteggere gli Stati Uniti, rilancia la sua visione tanto cara ai populisti: un Paese che si chiude, che penalizza gli scambi multilaterali, che misura la propria forza economica non nella competitività ma nella difesa doganale. È il populismo economico che sacrifica la complessità dei mercati globali per dare in pasto ai suoi sostenitori un racconto semplice e rassicurante: noi contro loro. Gli operai americani contro i concorrenti stranieri. Il patriottismo economico contro la logica del libero scambio. Una mossa con un chiaro messaggio politico tanto caro alla sua base elettorale, che guarda con nostalgia le fabbriche ora arrugginite della Rust Belt.
Il dossier commerciale si intreccia anche con la delicata relazione con Pechino. Dopo mesi di stallo nei negoziati, Trump ha rilanciato un’apertura al dialogo con il leader cinese Xi Jinping: “Mi è sempre piaciuto Xi, ma è un negoziatore tosto”, ha scritto il presidente, confermando la difficoltà di raggiungere un nuovo accordo commerciale, ma facendo capire che preme per trovare qualche tipo di intesa.