La politica della “mano dura” contro l’immigrazione illegale lanciata da Trump si scontra con i principi morali e giuridici alle fondamenta della democrazia americana, che dell’accettazione e del rifugio per quanti scappano dalle persecuzioni ha fatto un punto basilare. L’asilo è parte integrante della legislazione statunitense dal 1980, consentendo a chi teme per la propria incolumità di cercare rifugio nel Paese. Tutto dipenderà ora dalla decisione che la Corte Suprema emetterà dopo l’udienza del prossimo 15 maggio.
Che ci debba essere uno stretto controllo su chi entra negli Stati Uniti non è messo in discussione da nessuno, ma tutti, immigrati illegali compresi, devono avere il “due process”, cioè il giusto processo davanti a un giudice dell’immigrazione, prima di essere espulsi. Lo sancisce la Costituzione.
Trump sostiene che il sistema giudiziario dell’immigrazione è troppo lento, sovraccarico e inefficiente. Offrire un’udienza individuale a milioni di migranti richiede anni, durante i quali molti rimangono nel Paese in attesa. Evitare il “due process” riduce i tempi e i costi, anche se infrange le regole.
“I giudici interferiscono sulle mie decisioni. Ma come possiamo garantire il giusto processo a chi è entrato illegalmente nel nostro Paese?” ha ribadito ieri sera il presidente nel discorso pronunciato all’università dell’Alabama, accusando ancora una volta i giudici di antagonizzare per motivi politici le sue decisioni. Questo dopo che ieri in Texas un giudice federale, oltretutto da lui nominato, ha proibito all’amministrazione di utilizzare l’Enemy Aliens Act del 1798 per espellere dagli Stati Uniti un gruppo di detenuti venezuelani. Il giudice Fernando Rodriguez ha emesso la sentenza in risposta a un’azione legale intentata da alcuni dei detenuti e dopo che la Corte Suprema aveva già bloccato quelle espulsioni. Nella sua decisione il magistrato vieta “definitivamente” al governo di utilizzare l’Enemy Aliens Act, che Trump ha invocato il 14 marzo per deportare centinaia di venezuelani accusati di appartenere all’organizzazione criminale Tren de Aragua. Tuttavia, il magistrato chiarisce che l’amministrazione Trump può procedere con le espulsioni in base a una legge diversa, l’Immigration and Nationality Act, che richiede e sancisce la garanzia procedurale del “due process”.
L’uso dell’Alien Enemies Act per accelerare le deportazioni evidenzia le violazioni del diritto costituzionale sul giusto processo, come delineato nel Quinto Emendamento. Utilizzato solo tre volte dalla sua promulgazione nel 1798, l’Alien Enemies Act consente al presidente di detenere o deportare cittadini di nazioni nemiche, ma solo in caso di “guerra dichiarata” o “invasione” degli Stati Uniti.
Il 15 marzo scorso Trump ha invocato questa legge per espellere presunti membri della gang venezuelana Tren de Aragua, sostenendo che sono un gruppo terroristico, che “conduce una guerra irregolare contro il territorio degli Stati Uniti”. Ma l’American Civil Liberties Union, il gruppo in difesa delle libertà civili, aveva anticipato le mosse dell’amministrazione, richiedendo un’ingiunzione per impedire temporaneamente all’amministrazione di espellere cinque uomini venezuelani. Più tardi, lo stesso giorno, il giudice federale James Boasberg, a Washington, ha emesso la decisione in cui vietava al governo di utilizzare la legge, ordinando ai funzionari di bloccare la partenza, o invertire immediatamente la rotta, dei tre aerei che stavano per partire o erano appena partiti.
Circa 237 venezuelani sono stati espulsi ai sensi dell’Alien Enemies Act e rinchiusi nella megaprigione CECOT di El Salvador, dove si trovano tuttora. L’amministrazione afferma che tutti i deportati sono membri del Tren de Aragua. I sostenitori dei diritti degli immigrati ribattono che alcuni dei deportati su quei voli non avevano precedenti penali né una comprovata affiliazione a bande criminali. Per l’amministrazione Trump i tatuaggi sono la prova della loro affiliazione, ma non tutti hanno i tatuaggi.
A fine marzo, un collegio di tre giudici della Corte d’Appello federale di Washington ha confermato l’ordinanza di Boasberg e ha negato alla Casa Bianca l’uso dell’Alien Enemies Act. La giudice Patricia Millett ha sottolineato la mancanza di opportunità per i presunti membri delle gang di contestare i casi. “Nessun preavviso, nessuna udienza, nessuna opportunità per dimostrare di non essere membri della gang”, ha scritto la giudice.
All’inizio di aprile la Corte Suprema federale ha temporaneamente confermato l’uso della legge da parte del governo per espellere presunti membri del Tren de Aragua, con un’importante precisazione: dovevano ricevere un preavviso adeguato e la possibilità di contestare le loro detenzioni e deportazioni caso per caso.
Il 18 aprile, l’ACLU ha presentato ricorso d’urgenza alla Corte Federale in merito a un diverso gruppo di migranti destinati all’espulsione, affermando che “decine o centinaia di” detenuti “sono in imminente e continuo pericolo di essere espulsi dagli Stati Uniti senza preavviso e senza la possibilità di essere ascoltati, in diretta violazione” della sentenza della Corte di due settimane prima. I giudici della massima corte giudiziaria degli Stati Uniti, in un’ordinanza non firmata emessa a tarda notte, hanno stabilito che il governo non avrebbe dovuto “espellere alcun membro della presunta classe di detenuti dagli Stati Uniti fino a nuovo ordine di questa Corte”. I giudici Samuel Alito e Clarence Thomas hanno espresso parere contrario.

Tra gli espulsi c’era anche Kilmar Abrego Garcia, cittadino di El Salvador erroneamente deportato a marzo, come affermato in tribunale dall’avvocato del Dipartimento della Giustizia. Questa vicenda ha assunto una nuova dimensione, catalizzando la crescente sfida della Casa Bianca alle decisioni dei tribunali. Anche la Corte Suprema si è schierata con la decisione del giudice James Boasberg, che aveva ordinato il rientro di Abrego Garcia negli Stati Uniti. L’Alta Corte ha stabilito che l’amministrazione Trump dovrebbe contribuire a “facilitare” il rientro di Abrego Garcia. Da allora, l’amministrazione Trump ha innalzato un muro di pretesti, sostenendo che Abrego Garcia non dovrebbe essere riportato negli USA perché, senza nessuna prova, afferma che è membro di una gang terroristica del Salvador.
Una corte d’appello federale in Virginia ha fatto pressione sull’amministrazione affinché facesse di più per il rilascio di Abrego Garcia. Spicca la decisione del giudice J. Harvie Wilkinson III, un conservatore nominato da Reagan e membro della Corte d’Appello federale, il quale con una decisione sferzante ha affermato che la tesi del governo “dovrebbe essere scioccante non solo per i giudici, ma anche per l’intuitivo senso di libertà che gli americani, lontani dai tribunali, ancora nutrono per l’aggressiva mancanza del rispetto della legge da parte dell’amministrazione”.
Abrego Garcia, che era un apprendista idraulico e lavorava per un’azienda del settore, stava tornando a casa dal lavoro in auto con il figlio di 5 anni quando gli agenti dell’ICE lo hanno fermato. È stato arrestato. Pochi giorni dopo, è stato imbarcato su un volo insieme a presunti membri della gang Tren de Aragua ed espulso. Abrego Garcia non ha precedenti penali. Inizialmente era entrato negli Stati Uniti illegalmente, ma nel 2019 un giudice dell’immigrazione aveva stabilito che non poteva essere espulso a El Salvador perché la sua vita sarebbe stata in pericolo se fosse tornato, e aveva convalidato il suo permesso di soggiorno.
Finora il Dipartimento di Giustizia ha fatto ostruzionismo alle decisioni dei magistrati, insistendo che Abrego Garcia sia un membro della MS-13, la gang salvadoregna che l’amministrazione Trump ha recentemente dichiarato organizzazione terroristica straniera. Gli avvocati e la famiglia di Abrego Garcia contestano queste affermazioni e chiedono di mostrare le prove.
C’è poi la vicenda Khalil, l’ex studente della Columbia University e residente permanente legale negli Stati Uniti, arrestato l’8 marzo dagli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) nel suo appartamento a Manhattan. L’arresto è avvenuto senza mandato, con l’amministrazione Trump che ha giustificato l’azione citando il rischio di fuga. Khalil è stato trasferito al LaSalle Detention Center in Louisiana e rischia la deportazione, nonostante non sia stato accusato di alcun reato. Il Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) ha motivato l’arresto con presunti legami con attività pro-Hamas, in linea con gli ordini esecutivi del presidente Trump contro l’antisemitismo. Il caso ha suscitato ampie critiche da parte di organizzazioni per i diritti civili, gruppi ebraici progressisti e politici, che vedono nell’arresto una violazione della libertà di espressione e un atto di repressione politica. Il giudice federale Michael Fabiarz ha autorizzato la causa intentata da Khalil contro la sua detenzione, respingendo la precedente decisione di un tribunale dell’immigrazione in Louisiana che ne aveva approvato la deportazione. Attualmente, Khalil rimane detenuto in attesa della conclusione del processo legale. Il suo caso è emblematico delle tensioni tra sicurezza nazionale e diritti civili, evidenziando le sfide legali e politiche legate alla libertà di espressione negli Stati Uniti.
Khalil è stato il primo di diversi studenti e accademici internazionali non cittadini arrestati dall’Immigration and Customs Enforcement. Khalil e i suoi avvocati affermano che il governo sta attuando ritorsioni nei suoi confronti per aver parlato a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro la guerra tra Israele e Hamas. Stanno contestando la sua espulsione presso un tribunale federale, sostenendo che si tratta di una violazione incostituzionale della sua libertà di parola e del giusto processo.
Il tentativo dell’amministrazione Trump di espellere Khalil è diventato il simbolo della sua più ampia repressione contro gli studenti non cittadini e manifestanti pro-palestinesi nei campus. L’amministrazione ha revocato i visti a centinaia di loro.
Da aggiungere che l’amministrazione non ha preso di mira solo gli immigrati illegali o anche quelli che hanno la carta verde, ma quanti si oppongono alle decisioni della Casa Bianca. Nel mirino ci sono oltre 100 presunti nemici, tra cui l’ex deputata Liz Cheney, il dottor Anthony Fauci, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e Letitia James, procuratore generale di New York.

Nella lotta dell’amministrazione anche il 14° Emendamento della Costituzione, che concede la cittadinanza per nascita a chi nasce sul suolo statunitense. Trump ha cercato di reinterpretare questo “diritto di sangue” negando la cittadinanza a chi nasce da genitori senza status legale o che si trovano temporaneamente negli Stati Uniti, firmando un ordine esecutivo il suo primo giorno in carica. La maggior parte degli analisti legali ha definito la decisione palesemente incostituzionale.
I procuratori generali di 22 stati, l’ACLU e un gruppo di madri incinte e attivisti per l’immigrazione hanno tutti intentato causa contro l’amministrazione Trump per impedire l’entrata in vigore di questo ordine esecutivo. Tre giudici federali, in tre stati differenti, hanno deciso di bloccare l’ordine. La Casa Bianca ha presentato ricorso nelle corti d’appello dei tre stati.
Trump ha firmato ordini esecutivi che hanno sospeso il programma per i rifugiati e le domande d’asilo. Tra questi immigrati figurano haitiani in fuga dalla guerra tra le bande armate, afghani abbandonati dal frettoloso ritiro militare degli Stati Uniti, venezuelani in fuga dalla dittatura e dal collasso economico del loro paese e ucraini provenienti dalle zone occupate dai russi. Per bloccare l’ingresso illegale degli immigrati con un ordine esecutivo ha deciso che il confine al Sud degli Stati Uniti è zona militare vietandone l’accesso ai civili e chi cerca di entrare viene immediatamente arrestato ed espulso.
L’amministrazione ha anche congelato i fondi per i gruppi che lavorano con i rifugiati per aiutarli a reinsediarsi negli Stati Uniti, nel contesto di una più ampia spinta a rivedere i finanziamenti federali per le organizzazioni umanitarie. E l’amministrazione Trump ha ordinato ai giudici del sistema di tribunali per l’immigrazione del Dipartimento di Giustizia di accelerare i dinieghi di richiesta d’asilo senza un’udienza.